di Roberto Vacca – Telefonate ed e-mail, quasi sempre, ci arrivano perfettamente. Le sequenze di bit inviate sono codificate in modo che segnalino gli errori o che li correggano automaticamente. Così riceviamo messaggi fedeli all’originale anche se trasmessi su linee di comunicazione (telefoniche o telematiche) affette da disturbi (“rumore”) che ne omettano o alterino qualche elemento. Ad esempio, con 7 bit si possono trasmettere 128 simboli (lettere, numeri, segni) diversi. Però possiamo essere ridondanti e codificare ogni gruppo di 7 bit trasformandolo in un byte (8 bit): l’ottavo bit (detto “di parità”) è preso uguale a 1 oppure a 0 in modo che sia pari il numero di bit uguali a 1 nel byte. Se nel byte ricevuto c’è un numero dispari di 1, si è verificato un errore. Poi ci sono i codici che correggono gli errori, non si limitano a denunciarli. La procedura è complessa e la ridondanza cresce.3 Si sostituisce ogni gruppo di k bit con una combinazione lineare di quei bit stessi e di altri gruppi precedenti.
Anche i linguaggi umani si capiscono perché sono ridondanti. Usiamo più parole e lettere di quelle strettamente necessarie. Arabo ed ebraico si scrivono in modo meno ridondante: omettono le vocali non accentate. Chi legge le ricostruisce in base al contesto. Se scrivi un pezzo in italiano omettendo le vocali non accentate, sembra un po’ romagnolo, Si capisce ancora, ma se viene saltata qualche lettera, si perde significato.
Anche le parole che diciamo sono affette da rumore. Altri che parlano, rombi di auto, fischi di aerei, musiche, etc. I vecchi spesso sentono bene una persona sola che parli (meglio se a voce alta, non acuta e staccando le parole). Invece non sentono e non capiscono, se tanti parlano insieme o se c’è una TV accesa. Questa condizione si chiama “sindrome del cocktail party”.
Per fortuna i tecnologi offrono efficaci amplificatori dei suoni Alcuni sono direzionali: li punti verso un interlocutore e ne senti la voce amplificata, ma resta basso il volume delle altre voci. In vari casi la ipoacusia (sordità) si cura. Conviene farsi consigliare da uno otorinolaringoiatra e, poi, munirsi di apparecchi acustici se necessario. Però fa bene a ricorrere a codifiche non tecnologiche chi si vuol far capire dagli ipoacusici – i sordastri [uso il termine colloquiale: io stesso sono un po’ sordastro].
Le lingue umane non sono fatte di parole, ma di frasi. Per far capire le frasi che diciamo, dobbiamo usare la stessa sintassi di chi ascolta. Le parole messe insieme a caso sono ambigue o prive di senso. È ammesso che alcune siano sottintese o integrate dal contesto o da altri segnali (suoni, rumori, gesti – se visibili e compresi dall’ascoltatore).
Se suono a una porta e chiedono: “Chi è?” Posso rispondere: “Sono io.” Gli amici riconoscono la voce e aprono. Se sbaglio porta, domandano: “Chi cavolo sei?”. È meglio rispondere col proprio nome o con la qualifica (“Sono l’Ufficiale Giudiziario.”)
Se porgo una caffettiera e chiedo: “Ne vuoi?” , mi capisci, se non sono alle tue spalle o in un’altra stanza. Se rispondi: “E la tazza?”, capisco che ne vuoi una, ma in altra situazione la frase non avrebbe senso.
Concludendo per parlare con chi sente poco:
- Non usare gesti, né frasi di una parola sola
- Usa parole di parecchie sillabe (“automobile”, non “auto”)
- Pronuncia bene i nomi propri (che spesso sono fuori contesto e alza il volume)
- Usa frasi successive dello stesso significato, ma con parole diverse (ad esempio: “Conferma l’appuntamento con l’oculista – Era ora che ti facessi controllare gli occhi. Non ci vai da quasi due anni”.
- Cominciare ogni discorso con parole usuali [ad esempio: “Senti che cosa ho pensato“] – sintonizzano sulla tua voce chi ti ascolta.
(Articolo precedentemente pubblicato su CLASS)