di Claudio Cominardi – In Inghilterra il partito laburista di Jeremy Corbyn sta promuovendo una riduzione dell’orario di lavoro e della settimana lavorativa. La proposta trova forma nel Manifesto lanciato al recente Congresso di Brighton, cioè nell’idea di “una settimana di 32 ore distribuite su soli 4 giorni e vacanze annuali più lunghe”.
Stiamo parlando della patria della rivoluzione industriale, dove la normalità era quella di lavorare fino a 16 ore al giorno!
Al netto dei toni e dei commenti facili che da sempre si abbattono sulle proposte per incrementare tempo libero e qualità della vita (il Corriere per esempio non ha esitato a descrivere lo scenario immaginato dai laburisti “un Eden dell’ozio”), conoscendo bene il contesto italiano ritengo che una riflessione sullo stesso tema sarebbe più che opportuna anche nel nostro Paese.
L’Italia è il secondo Paese in Europa per numero di ore lavorate: un paradosso se pensiamo ai tassi di disoccupazione ancora troppo alti – anche se gli ultimi dati sull’occupazione premiano le politiche del Governo.
Quindi che fare? Innanzitutto dovremmo porre al centro del dibattito la questione dell’orario di lavoro valutando le varie modalità di attuazione, perché non può esistere una sola soluzione in un mondo del lavoro articolato e complesso. Nel contempo il tema non può essere scollegato da quello della produttività, che vede il nostro Paese arrancare.
L’obbiettivo comune dev’essere quello di raggiungere gli standard dei principali Paesi europei, dove si lavora meno e si guadagna di più. Un esempio su tutti è la Germania dove si lavora 7 ore in meno alla settimana, in poche parole, gli italiani lavorano quasi un giorno in più alla settimana rispetto ai tedeschi a fronte di salari ben più bassi.
Quindi, come agire? Per esempio:
– Investendo nelle nuove tecnologie che efficientano i processi produttivi, prima leva della produttività;
– Sostenendo i salari a partire dai più bassi attraverso la riduzione del costo del lavoro;
– Investendo sempre più nel capitale umano attraverso percorsi formativi “lifelong learning” e di inclusione sociale;
– Rimodulando l’orario di lavoro ove possibile tramite la contrattazione, con interventi di conciliazione vita-lavoro e attraverso normative incentivanti che vadano incontro alle necessità tanto dei lavoratori, tanto delle imprese.
C’è forse qualcosa di utopico o di fantascientifico in tutto questo? Personalmente credo proprio di no.