di Marco Dotti – Ciò che vediamo, nello scontro che in queste ore si sta consumando sul tema del divieto della pubblicità dell’azzardo, è solo la punta di un’inquietudine molto più profonda.
C’è l’inquietudine (dolorosa, ancorché positiva e vera, poiché comune) del voler, finalmente, ottenere un risultato concreto nel contrasto all’azzardo. Come? Colpendo uno degli assi portanti di un sistema che, in questi anni, ha inquinato il dibattito (incatenando i media), avvelenato il clima sociale e introdotto forme di biomarketing sempre più invasive, oltre che forme di aggressione finanziaria sempre più aggressiva.
Quando tra la realtà rappresentata da chi trae profitto e la realtà percepita da chi in quella realtà si trova immerso, pagandone direttamente o indirettamente il conto, il divario diventa un abisso … è inevitabile che si arrivi la resa dei conti. E’ quello che sta accadendo in queste ore.
Attorno alla pubblicità si muovono enormi interessi, considerazione ovvia. Ma su questo terreno gli interessi – cosa, forse, meno ovvia – sono trasversali e non riguardano solo chi fa business direttamente con l’azzardo legale. Riguardano un sistema di interconnessioni e interdipendenze reciproche, fra case farmaceutiche, azzardo, finanzia, creato e consolidatosi in tutti questi anni.
Al contempo, non dimentichiamolo, la pubblicità favorisce inedite aggregazioni di interesse (media, fondazioni, società sportive, addirittura istituzioni culturali…) creando legami che, oltre a mettere a rischio l’autonomia dei singoli, mettono in serio pericolo anche l’indipendenza dei soggetti collettivi.
Proprio questo sistema ha allargato il divario fra “Paese legale” e “Paese reale”. Finché il Paese reale ha fatto saltare un equilibrio che si reggeva su continue dichiarazioni di principio e zero passaggi all’atto.
Se si cambia il metro di giudizio, cambia anche il giudizio. Così se da un’arbitraria garanzia offerta al business (privato nei profitti, ma sempre capace di socializzare danni e perdite), si passa al metro costituzionale della tutela primaria di dignità e salute dei cittadini le cose assumono da subito un altro aspetto.
Ecco il perché di tanta agitazione attorno a questo divieto di pubblicizzare l’azzardo in ogni sua forma e su ogni mezzo, divieto peraltro – come ha ricordato l’economista Leonardo Becchetti – senza oneri per le casse dello Stato.
Il problema, per le società che operano nel settore del gambling, risiede nella natura stessa o, meglio, nell’intimo legame fra pubblicità dell’azzardo e prodotti dell’azzardo e degrado di capitale sociale e relazionale. Natura oramai evidente a tutti.
Bernie Sanders, nell’ultima campagna elettorale Usa, campagna che lo ha visto sconfitto elettoralmente, ma capace di mettere con franchezza a nudo alcuni nodi del sistema finanziario occidentale, parlò di predatory gambling, azzardo predatorio. Se c’è un predatore c’è una preda. E se c’è una preda, c’è un’esca. Quest’esca è, strutturalmente, la pubblicità. Senza l’esca, il predatore faticherebbe molto nel far cadere in trappola le prede. Togliere l’esca a un predatore non elimina il problema, ma lo costringe a uscire allo scoperto, mostrandosi per quello che è, non come un “predatore compassionevole”.
Per chi, in questa logica, vede non solo un problema di ordine etico e sociale, ma anche un rischio sistemico per il Paese, si tratta di porre un argine a questa colonizzazione.
La grande battaglia pro o contro la pubblicità del predatory gambling, settore che nel 2017 ha movimentato 102 miliardi di euro nel solo settore legale, oggi si svolge su un terreno primario: la nostra mente. La questione della pubblicità dell’azzardo è tutta qui: per le aziende si tratta di attrarre clienti, alterandone le cognizioni al fine di colonizzarne le emozioni, offrendo loro – come raccontava un programmatore di NGR, gli algoritmi che sono il motore di questo sistema – “esperienze a buon mercato”.
Detto banalmente: la pubblicità dell’azzardo non è sussidiaria al prodotto. È parte del prodotto stesso. E il prodotto… sono i giocatori. Che vanno sedotti e, letteralmente, “costruiti” come tali.
La pubblicità dell’azzardo di massa non si limita, infatti, a orientare i consumi. Li costruisce trasformandoli, a piccole dosi e a bassa intensità, in desideri. E i desideri, goccia dopo goccia, diventano bisogni.
Questo perché il terreno della mente si conquista al business attraverso una strada maestra: la costruzione di abitudini. L’abitudine è un comportamento automatico innescato da cose che incontriamo (in apparenza) casualmente sul nostro percorso e da comportamenti conseguenti a queste cose.
L’abitudine è una somma di comportamenti che mettiamo in moto senza prestar particolare attenzione e senza che questi comportamenti arrivino alla soglia della consapevolezza. La stratificazione di questi comportamenti produce quello che in gergo si chiama “ingegnerizzazione dell’abitudine”.
Elemento chiave per costruire e ingegnerizzare abitudini, in un settore come il gambling, è appunto la pubblicità. La pubblicità non è un elemento accidentale, ma è un condizione costitutiva del business dell’azzardo legale.
Senza pubblicità, non c’è possibilità:
- di agire sull’immaginario sociale;
- convertire in valore qualcosa che nel senso comune è un disvalore;
- garantire una “normalità” a ciò che non è normale;
- limitare l’autonomia di scelta del soggetto targettizzato, pur mantenendo un’apparenza di libertà nella scelta: è il famoso “smetto quando voglio”, solo che quando si tratta di smettere, premendo il freno, ci si accorge che il freno non c’è. O, meglio, anche il pedale del freno è un acceleratore.
In questo settore, la pubblicità costruisce inoltre uno scenario dentro il quale l’abitudine di consumo viene dotata di un senso. Perverso finché si vuole, ma un senso: si gioca per vincere, ma anche per viaggiare, per avere una casa, si gioca per un futuro migliore, si gioca per la famiglia, etc.
L’azzardo di massa deve essere spacciato per intrattenimento, per mantenere i suoi livelli di business. E deve alimentare una retorica dell’autocontrollo per incrementarli senza intoppi: lo “smetto quando voglio” del giocatore, dal lato del business diventa il moralistico “gioca responsabilmente”.
Il termine inglese «hooked» letteralmente significa “uncinato”, “afferrato”. Attorno a questa parola l’esperto di neuromarketing e videogiochi Nir Eyal ha costruito un modello strategico chiamato “il gancio” che spiega esattamente quanto, banalizzando, abbiamo detto finora.
La pubblicità permette inoltre di legittimare sul piano sociale ciò che già è stato – con le legalizzazioni avvenute a partire dagli anni Novanta – autorizzato sul piano formale-legislativo.
Nell’ambito dell’azzardo, specialmente online, la pubblicità di un prodotto e l’architettura di quel prodotto sono tutt’uno. Ecco il problema.
L’advertising è dunque ben più che presentazione o rappresentazione di un prodotto. L’advertising non è informazione, come vorrebbero far credere molti fra coloro che, in queste ore, si oppongono all’abolizione della pubblicità dell’azzardo che il Governo si appresta a varare. L’advertising è un tassello di una deformazione complessiva del piano di realtà operata dal predatory gambling.
La pubblicità dell’azzardo è, tecnicamente, un trigger: è un innesco potentissimo dell’abitudine che spinge verso prodotti-gabbia. In settori delicati dove la “fidelizzazione” del cliente sconfina spesso e sempre più con la costruzione di dipendenze, vale la formula coniata da chi questo problema l’ha studiato davvero e l’ha studiato da dentro, la ricercatrice del MIT Natasha Dow Schull: l’addiction è by design, è già insita nel prodotto, non dipende dal suo uso scriteriato o, peggio, dall’abuso. Un problema complesso, insomma. Ma con una risposta semplice. Tertium non datur.