“Chi non conosce le parole non ha nulla per conoscere gli uomini”. (Confucio, Dialoghi, n. 499)
di Alberto Nigi – Che cosa differenzia l’uomo dagli altri esseri viventi? L’intelligenza, come molti affermano? Niente affatto! In diversa quantità e qualità tutti gli esseri viventi sono dotati di “intelligenza”. Allora, dove sta la differenza qualitativa e non quantitativa tra uomo e animale? Semplice: l’uomo parla e scrive e possiede la facoltà di concepire, progettare, costruire, conservare, adoperare, riadoperare ed evolvere utensìli. Questa risposta, apparentemente banale e scontata, rappresenta, invece, la “chiave di volta” per farci comprendere le più nascoste origini della storia umana, poiché linguaggio verbale e tecnologia, aspetti dalla radice comune e fusi in un unico destino, hanno permesso all’uomo di realizzare un mondo artificiale in parallelo al mondo naturale. A tal proposito, ho forgiato un neologismo che esprima il succo della mia teoria antropologica: “logotecnìa”, la sintesi di “linguaggio verbale” e “tecnologia” (logos + téchne), aspetti che, dal punto di vista somatico, fanno capo al pollice opponibile, alle corde vocali e alla massa cerebrale opportunamente sviluppata e predisposta e alla stazione eretta. Questi fattori sono legati fra di loro ed indispensabili alla comparsa del fenomeno “uomo”, un soggetto che sa esprimersi per simboli e che per comunicare usa “segni”, mentre gli animali, incapaci di simbolizzare, usano “segnali”.
Se la scienza ci spiega il funzionamento del sistema comunicativo, non ci spiega però l’origine del linguaggio e la nascita dei simboli. Di qui la necessità di risalire al momento in cui l’uomo riuscì a dare veste fonetica ad una sua azione e a costruire un oggetto per compierla.
Per secoli e secoli, a partire da Platone, quattrocento anni a.C., si è discusso sull’origine naturale o convenzionale di parole e lingue e mai si è giunti ad una soluzione convincente. Essa, tuttavia, esiste e sta nella “terza via”, dove “naturalità” e “convenzionalità” si fondono in una sintesi allotria, come in chimica due gas, idrogeno ed ossigeno, formano un liquido: l’acqua.
Ogni uomo possiede la stessa facoltà innata di creare strutture logiche utilizzando i materiali disponibili in virtù di regole e metodologie operative: questo è l’aspetto “naturale”, potenziale e uguale per tutti del fenomeno. L’aspetto “convenzionale” scatta, invece, nel momento in cui si entra nell’atto specifico della strutturazione che si manifesta nella diversità. In altre parole, non c’è differenza fra costruire una casa, un motore o una frase. La differenza sta nei materiali e nelle regole specifiche (grammatiche) di strutturazione: mattoni, cemento, ecc., ingranaggi, bulloni, ecc., fonemi, ideogrammi, ecc. Inoltre tutte le case, sebbene costruite con gli stessi criteri e materiali, non sono uguali e non lo sono i motori e neppure le lingue.
Architetti, ingegneri e scrittori hanno la medesima radice creativa e quindi la domanda è se in origine sia esistita una maggior aderenza fra innatismo e pragmatismo, ovvero se ad una maggior omogeneità tecnologica corrispondesse un’altrettanta omogeneità linguistica. Di conseguenza potremmo chiederci se, in principio, esistesse una lingua unica comprensibile da tutti, o meglio un linguaggio condivisibile a prescindere dalle differenze oggettive e pratiche.
Come si spiega, allora, l’esistenza di tante lingue diverse? L’unica risposta sta nell’ipotizzare, alla base del “fenomeno uomo”, l’esistenza di un “tecno-linguaggio”, ovvero di un universo simbolico in grado di soddisfare i fondamentali significati tecnologici e linguistici nel contempo. Ciò ha fatto dell’uomo stesso un essere creativo, capace di pensare razionalmente e di vivere l’esistenza nella dimensione “universale”. Poi qualcosa è cambiato.
La tecnologia, ovvero la strutturazione degli utensìli, si basa su ventidue (21+1) tecno-archetipi, detti “tecnemi”, ovvero forme-funzioni che possono essere assemblate, combinate in ordine di importanza e lette come vere e proprie frasi fonetiche. Si rende così possibile costruire un linguaggio “tecnemico” sulla combinazione fattoriale “21” che determina circa cinque quadrilioni di parole-oggetto. Ora, però, prendiamo in considerazione quelle che per prime hanno permesso all’uomo di sopravvivere. La forma archetipica della punta ha la funzione di bucare, da cui lance, frecce, aghi, chiodi, stiletti, ecc. La forma archetipica della lama ha la funzione di tagliare da cui asce, coltelli, forbici, ecc. La forma archetipica del masso ha la funzione di schiacciare da cui mazze, martelli, mole, morse, presse, pinze, ecc. Ora, donde ha tratto l’uomo l’ispirazione per l’ideazione, la costruzione e l’evoluzione di tali utensìli? Osservando la natura intorno a sé? Niente affatto! L’uomo avrebbe potuto farlo anche se isolato in un deserto. Infatti, l’umanità aveva a portata di bocca i primi archetipi per costruire quegli strumenti di base. Asce, frecce e mazze derivano dai denti incisivi, canini e molari! Tali forme sono adatte alla funzione del tagliare, del bucare e dello schiacciare, grazie alle quali era possibile costruire strumenti più complessi e altre strutture tecniche. Caso vuole che la bocca e la lingua siano anche gli organi della parola e infatti la rappresentazione neuro-psicologica del cosiddetto “homunculus corticale” (mappa di Wilder Penfield) in cui fra le aree della corteccia somatica sensoriale dell’encefalo umano prevalgono in estensione quelle relative alle mani, alle labbra e alla lingua che appaiono parti del corpo nettamente privilegiate.
Che succede se uniamo due lame con la forma “perno” la cui funzione è la rotazione? Una forbice generica! Per manovrarla, però, abbiamo bisogno di un manico, ovvero della forma-funzione agganciante. La parola “forbice” può essere scritta come “tecno-parola” con soli tre tecnemi ed essere compresa da chiunque nell’universo: basta usare “tecnemi” al posto di “fonemi”. Se sostituiamo alla lama la forma-funzione schiacciante, la forbice si trasforma in una pinza generica.
Forma-funzione punta: se in un chiodo al posto della testa mettiamo un buco, “forma-funzione” penetrante, otteniamo un ago. Con soli tre tecnemi possiamo individuare degli oggetti fondamentali dell’operosità umana. Nel mio libro “Tecno-archetipi e civiltà” ho indicato altri vari esempi.
Così abbiamo puntualizzato il principio archetipico della “forma-funzione”. Di fatto, i principi strutturanti sono gli stessi del linguaggio verbale. Gli antichi Egizi svilupparono una serie di 22 geroglifici e praticamente tutti gli alfabeti più antichi tra cui Proto-Canaan, Ugaritico, Fenicio, Accadico, da cui l’ebraico, hanno 22 segni o lettere: meglio dire 21+1, perché c’è un segno che li rappresenta tutti come il “jolly” delle carte da gioco. L’organizzazione dei ventidue amminoacidi delle proteine nel DNA segue lo stesso principio di strutturazione. In tal modo possiamo ottenere una visione globale, olistica, della stessa radice verso cui convergono lingua, tecnologia e biologia.
Pertanto, questa particolare “intelligenza”, che è il marchio di un’evoluzione spontanea verso il “cielo”, altro non è che l’espressione del linguaggio archetipico dell’intero universo.
Qualcosa, però, non ha funzionato bene, poiché il mondo artificiale creato dall’uomo non appare armonioso, ma negativamente alternativo al mondo naturale. Questo aspetto è presente in tutte le culture mondiali e nelle più antiche civiltà di cui abbiamo conoscenza storica e archeologica.
Come nelle favole non sono le avventure dei personaggi che contano, bensì la cosiddetta “morale della favola”, in Genesi, 11, 6-7 si legge: “E il Signore disse: essi sono un solo popolo e per tutti loro c’è una sola lingua. Ora non c’è nulla che abbiano in mente di fare che sia irraggiungibile per loro. Confondiamo la loro lingua affinché non si capiscano l’uno con l’altro”.
In queste parole favoleggianti è comunque stigmatizzata la caratteristica fondamentale dell’uomo delle origini, capace d’intendersi e di costruire strutture talmente elevate da raggiungere il “cielo”. Infine, ecco l’uomo che, perduta la capacità d’intendersi, vede crollare l’intera struttura della sua organizzazione sociale, tecnologica e linguistica.
Morale della favola: dal momento del crollo della mitica “Torre di Babele”, simbolo della struttura tecno-verbale dell’intelligenza umana proiettata verso il “cielo”, l’umanità sperimenta un turbine di malumori interiori ed esteriori, fino alle espressioni delle atrocità più angoscianti.
L’AUTORE
Alberto Nigi, classe 1947, docente di Lingua e Letteratura Italiana, è autore di numerose pubblicazioni nel campo della saggistica e della narrativa. Dal 2011 ha pubblicato romanzi thriller e racconti del mistero sotto lo pseudonimo anglosassone di Ralph Colemann.
http://ralphcolemann.altervista.org