“Lo specialista è colui che sa sempre di più su sempre di meno, fino a sapere tutto di niente”. (George Bernard Shaw)
“Mi credono pazzo perché non voglio vendere i miei giorni in cambio di oro. Io li giudico pazzi perché pensano che i miei giorni abbiano un prezzo”. (Khalil Gibran)
di Alberto Nigi – Il medico tradizionale cinese si distingue da quello occidentale perché mantiene una visione globale-intera (olistica) del sistema e per capire osserva il grande, il molteplice, il complesso, mentre l’altro rincorre una visone particolare-settoriale e per capire osserva il piccolo il singolo, il semplice.
Se una persona accusa dolori addominali, il medico occidentale studia i microrganismi intestinali (visione microcosmica) e perde di vista il paziente, mentre il medico orientale studia le relazioni del paziente con il suo ambiente vitale (visione macrocosmica). Così, quando la medicina occidentale deve ricorrere alla chirurgia, allora denuncia il suo tragico fallimento. Ecco che la battuta di George Bernard Shaw assume il volto della profezia.
L’organismo umano è simile a quello dei sistemi sociali che dovrebbero fondarsi sull’economicità e l’essenzialità, capisaldi di ogni sistema complesso realmente efficiente.
L’uomo è destinato a fare tutto ciò che rimane dopo che il computer ha già fatto tutto ciò che gli è possibile. Le braccia umane non spostano più i pesi: ci sono le macchine. Le scienze agronomiche e la meccanizzazione dell’agricoltura sfatano la ben nota e terrificante voce biblica: “Maledetta sarà la terra per causa tua. Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita” (Genesi, 3,17).
Questa è la classica concezione del lavoro, derivante da una condanna “divina”. La parola stessa deriva dal latino “labor”, “fatica”, da cui “faticare”, ma l’operare umano dovrebbe essere semplicemente un “fare” col piacere di “fare”.
Il primo articolo della Costituzione della Repubblica Italiana, recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. L’espressione “fondata sul lavoro” non ha alcun senso se non quello di convalidare la mortificante condanna biblica e quindi andrebbe depennata. Non sarebbe meglio “fondata sull’intelligenza”, “fondata sull’efficiente organizzazione sociale” o altro di più saggio?
Perché inneggiare alla “fatica”?
Il fisico non si irrobustisce tirando carriole, portando sacchi sulle spalle o maneggiando vanghe, falci, martelli e scalpelli che producono il “sudore della fronte” (“il sudore degli asini”!) bensì praticando la giusta attività motoria o idonei sport secondo precisi criteri scientifici.
L’uomo non è un “animale da soma” o un “pappagallo intellettuale”. Il cervello non è destinato a fare l’animale da tiro o da circo nell’ambito di una pseudo-cultura prefabbricata dal potere dominante. Al contrario, il lume della ragione dovrebbe sconfiggere l’oscuramento dell’intelligenza.
L’uomo fa e nel contempo tende al non-fare. Per sua natura, egli vuole sapere e memorizza, ma poi la conoscenza nozionistica si vanifica cedendo il posto all’essenzialità della consapevolezza.
Oggi la cultura altro non è che una formalizzazione di conoscenze e comportamenti derivante dalla discriminazione storico-geografica. Geostoria, eden, ecumene, relativismo spaziale, terra promessa: ogni civiltà si sente omphalos, al centro del mondo, perdendo l’idea organica della globalità, dando invece adito al suo aspetto degenere: la globalizzazione.
Le culture si manifestano come un complesso formale di significati sulla base della convenzionalità: ogni popolo dà un significato a se stesso, ogni individuo lo dà alla propria vita. Però il vero problema non è darsi un significato, bensì capire il significato.
Che uno sia bianco o nero, operaio o scienziato, biondo o bruno, alto o basso, ricco o indigente, affamato o pasciuto, asiatico o scandinavo, di sesso maschile o femminile, imprenditore o disoccupato, insegnante o alunno, guardia o ladro, la questione di fondo non cambia.
Alla fine si scopre che noi “facciamo”, non “siamo”. Esistiamo nel fare, il fare è il nostro esistere e l’esistere è il nostro fare.
Perché dire: “Io sono un commerciante o un insegnante o un ingegnere? Non è forse più corretto e dignitoso dire io “faccio” il commerciante e così via per non confondere l’uomo con il suo ruolo e il suo mestiere, per non pretendere che il suo fare sia un essere?
Sarebbe indispensabile estinguere quella ingannevole priorità dell’io che, pur di sussistere, deve abbarbicarsi ad una qualche parvenza, auto-identificandosi in qualcosa e poi votandosi ad un’appartenenza purché sia. L’esaltazione dell’io della superficie (a discapito del profondo sé) giunge a livelli incredibili pur di fabbricarsi una personalità esteriore, contraddittoriamente composta con gli stessi materiali corruttibili del campo di esistenza evanescente del mondo globalizzato così come ci appare: vale a dire un mondo sempre più simile ad una bolla di sapone.
L’AUTORE
Alberto Nigi, classe 1947, docente di Lingua e Letteratura Italiana, è autore, di numerose pubblicazioni, nel campo della saggistica e della narrativa. Dal 2011 ha pubblicato romanzi thriller e racconti del mistero sotto lo pseudonimo anglosassone di Ralph Colemann. http://ralphcolemann.altervista.org