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In Cina gli influencer dovranno avere titoli

beppegrillo.it - Ottobre 19, 2025

Viviamo in un’epoca in cui chiunque può dichiararsi esperto di qualcosa. Basta una telecamera, un microfono, un profilo social e qualche frase ben costruita per ottenere ascolto. Le piattaforme sono piene di persone che dispensano consigli su medicina, finanza, diritto, psicologia, alimentazione o crescita personale. L’effetto è una valanga di informazioni difficili da distinguere, dove la competenza autentica si confonde con la capacità di vendere sé stessi. Il fenomeno dei “fuffaguru” è ormai globale, nel mondo dei social si sono moltiplicati profili che promettono risultati facili e soluzioni immediate; il pubblico vede contenuti curati, parole persuasive, testimonianze che sembrano autentiche e si crea così un’economia dell’illusione che vale miliardi di euro e che si regge sulla fiducia di chi crede di poter cambiare vita con un video motivazionale o un corso online.

In Cina la questione è diventata adesso un tema di governo. Le autorità hanno imposto nuove regole per chi parla di argomenti professionali. I creator devono dimostrare di avere titoli o qualifiche verificabili e le piattaforme come Douyin e Weibo sono tenute a controllare le credenziali degli utenti. In caso di violazioni le multe possono arrivare a 100.000 yuan, circa 13.000 euro, e comportare la sospensione o la chiusura dell’account. L’obiettivo dichiarato è migliorare la qualità dei contenuti e contrastare la disinformazione che invade le reti digitali.

Le prime misure di controllo risalgono al 2022, quando la Cyberspace Administration of China avviò un piano per regolamentare le agenzie che gestiscono influencer e piattaforme di streaming. A giugno dello stesso anno venne introdotto l’obbligo per chi trattava temi come medicina, finanza, diritto o educazione di possedere le relative licenze o qualifiche. Ad Ottobre 2025 la normativa è stata rafforzata con nuove disposizioni che rendono obbligatoria la certificazione dei creator da parte delle piattaforme, estendendo la responsabilità anche a chi ospita i contenuti. È un passaggio che segna un cambiamento strutturale nell’ecosistema digitale cinese, dove la popolarità online non basta più a garantire autorevolezza.

In Cina oltre 700 milioni di persone partecipano a dirette o producono contenuti online, pari a quasi il 70% della popolazione connessa. L’economia degli influencer, definita “wanghong economy”, vale più di 8 miliardi di dollari e continua a crescere. Anche in Occidente la situazione non è diversa, ogni giorno nascono nuovi profili che parlano di finanza, benessere, diete, investimenti o relazioni e molti di loro non hanno alcuna formazione, eppure riescono a influenzare scelte importanti di migliaia di persone, soprattutto i più giovani che tendono molto spesso ad imitare i loro beniamini.

E così capita spesso che gli utenti scoprono troppo tardi di aver creduto a promesse irrealistiche. Corsi che insegnano a diventare ricchi, programmi di coaching che garantiscono successo o diete che promettono salute perfetta, perdere kg con pillole miracolose. Il risultato è una massa di persone deluse e diffidenti che non distinguono più chi lavora con serietà da chi costruisce solo un personaggio. L’educazione digitale diventa allora una forma di difesa. Verificare le fonti, capire chi parla, riconoscere le semplificazioni, imparare a dubitare sono gesti di sopravvivenza intellettuale, soprattutto ora con l’avvento dell’IA e di Sora 2, applicativo che genera video iper realistici.

La Cina, con tutte le sue contraddizioni, ha deciso di intervenire con regole severe. Forse anche l’Europa dovrà prima o poi affrontare il tema della responsabilità digitale, sicuramente per proteggere i più giovani, che su queste piattaforme ci passano ormai più tempo, e soprattutto la competenza e il sapere autentico.

Fino ad allora, l’unico antidoto contro i “fuffaguru” resta l’uso critico della mente; diffidare delle certezze assolute, cercare le fonti, pretendere chiarezza e trasparenza. La libertà di parola è un valore, la libertà di ingannare non lo è.

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