di Matteo Cavallito – Possiamo attribuire un valore economico alla natura e metterlo maggiormente in evidenza. Ma non sarebbe comunque abbastanza. La verità è che facciamo i conti con un “fallimento istituzionale nella regolamentazione dell’economia e delle attività finanziarie così come nel modo in cui misuriamo il progresso”. Parola di James Vause, economista presso il World Conservation Monitoring Centre del Programma Ambientale delle Nazioni Unite. Una riflessione, resa nota in un’intervista diffusa dalla European Environment Agency che chiama nuovamente in causa problemi irrisolti come la crisi della biodiversità e la gestione insostenibile delle risorse.
“Per proteggere la biodiversità serve un nuovo Piano Marshall”
Vause non è nuovo a questo genere di analisi. Nel febbraio di quest’anno è stato tra gli autori della Dasgupta Review, l’indagine commissionata dal governo britannico per valutare l’impatto economico delle cosiddette “crisi gemelle” – il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità. Gli autori, nell’occasione, raccomandavano il perseguimento di politiche per la tutela della natura e scelte di investimento pensate per scongiurare i danni ambientali e le perdite finanziarie. Due interventi che richiedono un enorme sforzo economico. “Se vogliamo aumentare l’offerta di capitale naturale e ridurre le esigenze verso la biosfera, saranno necessari cambiamenti su larga scala”, spiega Vause. “Questi cambiamenti devono essere sostenuti da livelli di ambizione, coordinamento e volontà politica non meno importanti di quelli che caratterizzarono il Piano Marshall dopo la seconda Guerra mondiale”.
La natura genera di fatto 40 trilioni di dollari di ricchezza
Il legame tra natura ed economia suscita sempre maggiore attenzione. Nel luglio di quest’anno, un rapporto congiunto della Banca Centrale Europea e dello European Systemic Risk Board ha evidenziato i pericoli connessi ai mancati interventi di mitigazione climatica. “Non affrontare i rischi legati al clima – si legge nell’indagine – potrebbe determinare un calo del 20% del Pil globale entro la fine del secolo”. Il peso del patrimonio naturale, del resto, è notoriamente gigantesco. Il World Economic Forum, ricorda Vause, ha evidenziato come “circa metà del Pil mondiale sia moderatamente o altamente dipendente dalla natura”. A conti fatti, verrebbe da aggiungere, equivale ad affermare che le risorse naturali, in collaborazione con altri fattori, partecipano ogni anno alla creazione di una ricchezza complessiva di circa 40 mila miliardi di dollari.
La tutela di questo patrimonio, aggiunge l’economista, “dipende dall’impegno dei Paesi e dei loro leader nel destinare risorse sufficienti per contrastare la perdita di biodiversità”. Bene il Green Deal UE, aggiunge, così come l’impegno scritto siglato da 92 Paesi al Summit sulla Biodiversità dell’ONU nel 2020. Ma serve in ogni caso “un’azione coordinata di enormi dimensioni”.
Meno biodiversità significa più disuguaglianze
Il fatto, spiega Vause, è che tutelare l’ambiente significa anche combattere le disuguaglianze. Lo sfruttamento indiscriminato delle risorse e la perdita di biodiversità, infatti, creano un gap sempre più ampio ad almeno tre livelli. Il primo consiste nel divario tra Paesi alimentato, attraverso il commercio globale, dalle nazioni più ricche la cui domanda supera la capacità di offerta della natura stessa. La seconda discrepanza si manifesta all’interno della società. Visto che “i benefici del commercio globale non sono necessariamente intercettati dai più poveri” che, a loro volta, “sono anche più inclini a patire i costi più elevati di qualsiasi perdita di biodiversità poiché dipendono maggiormente dalla natura nella loro vita quotidiana”.
La terza forma di disuguaglianza è quella che intercorre tra diverse generazioni. “Il nostro mondo sta cambiando molto velocemente”, afferma Vause. “Se ritardiamo di un decennio l’azione sulla biodiversità, i costi per stabilizzarne la perdita raddoppieranno e la possibilità di mantenere intatti i livelli attuali di varietà del patrimonio naturale scomparirà”.
Il Covid? “Una sveglia per il mondo”
La speranza di un’inversione di tendenza nella tutela della natura è legata alla crescente consapevolezza del pubblico. “Penso che il COVID-19 ci abbia dato una sveglia” conclude Vause. “La Dasgupta Review si focalizza sull’idea delle preferenze socialmente incorporate”. Il che, prosegue, “significa che il comportamento e le pratiche di una persona sono influenzati dal comportamento e dalle pratiche degli altri”. Per questo “un cambiamento diffuso potrebbe essere possibile e a un costo più basso del previsto, ipotizzando la tendenza delle persone a conformarsi tra loro”. L’attuale moda delle diete vegetariane o vegane, sottolinea ancora, “potrebbe essere un buon esempio in tal senso”.