di Marco Sarà – La possibilità che la nostra mente sia caricabile all’interno di un computer è oggetto di molte discussioni e speranze negli ultimi anni. Nonostante sia molto difficile affrontare pubblicamente argomenti in cui sia in gioco la speranza dell’uomo di sopravvivere alla sua morte fisica, accidenti, qualcuno lo dovrà pur fare!
Esiste una scuola di pensiero che vede nell’informazione il mattone essenziale dell’universo, le ipotesi elaborate dai singolazionisti portano a concepire un “Bit Bang” al posto del “Big Bang”. La trama dell’universo sarebbe costituita da uno e zero, quello che percepiamo sarebbe sempre e comunque una forma dell’informazione.
In ogni caso se l’universo fosse costituito di informazione, e noi potessimo averne la certezza, dovremmo ammettere che il concetto di informazione non possa essere stato ”Inventato” dall’uomo. In un certo senso, quando pensiamo ai grandi problemi della fisica e della natura della coscienza tendiamo a ricadere sempre nello stesso dilemma: la difficoltà a distinguere ciò che abbiamo creato noi, da quanto era già presente nel mondo naturale indipendentemente dalla nostra esistenza.
Paradossalmente se ci concentriamo su questo problema possiamo accorgerci che la neurofisiologia ci ha già fornito gli strumenti necessari per rispondere alla domanda iniziale: è possibile che la mente umana venga un giorno uplodata in un computer?
Il Corpo della mente
Immaginate di osservare un leone in giro per la savana in cerca di una preda. Il grande felino si sposta continuamente e ciò implica la continua produzione di stimoli sonori e tattili dovuti ai suoi stessi movimenti. È facilmente intuibile che se il leone non fosse in grado di distinguere fra ciò che percepisce come conseguenza dei suoi stessi movimenti e tutto il resto sarebbe difficilmente in grado di portare a termine la sua battuta di caccia.
Lo stesso vale per la preda, che ha la necessità di accorgersi prima possibile di essere puntata dal predatore. Molte persone riferiscono di accorgersi con grande facilità di essere osservati, come se fossero in grado di “vedere alle loro spalle”, è realmente possibile?
Siamo già arrivati in un territorio molto scivoloso, la sensazione di essere osservati, quando non è vera, rappresenta uno dei sintomi chiave dei disturbi psicotici. Al contrario l’effettiva capacità di riconoscere la presenza di un predatore che ci abbia puntato è in grado di fare la differenza fra la vita e la morte.
Dovete sapere che per ogni movimento che compiamo ne viene mandata una sorta di copia (definite copia efferente) ad una parte del cervello che genera una sensazione prevista corrispondente. Quando la sensazione prevista coincide con quella effettiva, questa viene immediatamente attenuata.
E’ in questo modo che il predatore, attenuando l’intensità degli stimoli che provengono dai suoi stessi movimenti, è facilitato a riconoscere quelli provenienti dall’ambiente che lo circonda. In questo modo avvertiamo più intensamente gli stimoli provenienti dall’ambiente circostante.
Proviamo ora a metterci nei panni della zebra che il leone sta puntando in mezzo al branco: in che modo può accorgersi di essere puntata?
Se consideriamo il modello appena descritto è abbastanza facile elaborare un’ipotesi: qualunque percezione collegata ai miei stessi movimenti ma non generata da me potrebbe provenire da qualcuno che mi sta ”Puntando”.
Se riflettiamo su queste osservazioni da un altro punto di vista potremmo renderci conto di come il nostro essere nel mondo consista in un ciclo continuo di movimenti e sensazioni percepite che necessitano di continuo rapporto fra di loro. In un certo senso quello che abbiamo appena descritto rappresenta un esempio di rapporto imprescindibile fra la mente ed il corpo.
Ed è davvero difficile immaginare che una mente pura, caricata su di un computer, una mente che sarebbe fatta di pura essenza pensante, possa funzionare in assenza di alcun riscontro di se nel mondo. E’ sufficiente pensare alle difficoltà che incontrano gli astronauti in assenza di gravità se non vengono addestrati a sufficienza prima della partenza.
L’insieme di queste osservazioni hanno portato a definire una fisiologia del cosiddetto “sense of agency” o “senso di essere gli autori” di un movimento, suono e persino pensiero.
In conclusione, nel nostro cervello c’è un sistema che ci informa e risponde continuamente ad una domanda che tendiamo a dare per scontata, ma non lo è.
Siamo noi gli autori di quello che sentiamo, avvertiamo e immaginiamo? Sono miei questi pensieri, oppure me li ha inseriti in testa qualcuno?
Questo sense of agency, non permette di concepire una mente che basta a se stessa.
Quindi, volendo emulare il comportamento umano sarebbe necessario implementare un sistema dell’agency in qualunque sistema di “mente artificiale” capace di essere nel mondo e riconoscercisi.
L’AUTORE
Marco Sarà, Neurofisiologo, si è sempre occupato di gravi lesioni cerebrali acquisite e disturbi della coscienza. E’ autore di numerose pubblicazioni scientifiche e di alcune metodiche originali nella diagnostica e terapia dei disordini della coscienza.