di Mirella Liuzzi – È ben noto che l’informazione è elemento costitutivo del potere e fattore fondamentale della strategia; così come non sono una novità le azioni belliche consistenti nell’uso delle informazioni e, oggi, del software per piegare i competitor senza subire costi e altre conseguenze, in particolare nel caso di uno scontro fisico se l’azione è di natura militare. Ed è quasi superfluo anche ricordare come la disinformazione sia un’attività praticata in tempi remoti e tutt’altro che inutilizzata.
Dalla calunnia personale, alle evocative locandine apparse sui quotidiani nei periodi di guerra in Europa illustrate in quasi ogni libro scolastico di Storia passato nelle nostre mani, fino alle articolate campagne di disinformazione e contro-informazione che hanno percorso l’intero periodo della guerra fredda in entrambi i blocchi, il fenomeno è, infatti, noto e consolidato. Sotto altro profilo, non va sottaciuto come lungo questa traiettoria evolutiva, lo sfruttamento della risorsa informativa sia aumentato esponenzialmente. A tal riguardo, basti pensare che la formazione di grandi masse dati – fenomeno meglio noto come big data – e il loro utilizzo controllato con l’impiego di algoritmi di analisi rappresentano nella competizione (economica, politica, strategica) la nuova leva per la formazione di posizioni di potere.
Il problema posto dalle fake news, che agita ormai da qualche anno istituzioni, politici e forze governative di ogni livello, non sta dunque nella natura del fenomeno in sé. La maggior discontinuità rispetto al passato si caratterizza per il suo profilo qualitativo, grazie al citato binomio “big data/ algoritmi”. Gli autori del saggio “Fakedemocracy – Il far west dell’informazione, tra deepfake e fake news”, Alessandro Alongi e Fabio Pompei, hanno colto in pieno il senso di questi cambiamenti, descrivendo come rispetto alla disinformazione o alle campagne di condizionamento classiche, sia oggi possibile veicolare messaggi manipolatori sotto forma di notizie di cronaca in maniera mirata (targeting), confezionandole in modo da renderle verosimili ai destinatari, sfruttando le loro specifiche emozioni, schemi cognitivi, lacune informative, aspirazioni.
Infatti, il presupposto dell’azione appena descritta è il possesso, da parte dell’agente disinformatore, delle informazioni relative ai target ai quali somministrare le fake news. Passaggio, questo, abbastanza agevole per un personaggio pubblico; mentre per altri, meno conosciuti, richiede una accurata profilazione sulla base del possesso di informazioni sulle abitudini, sulle preferenze, sugli interessi che hanno manifestato nelle loro esperienze di navigazione in Internet, nella scelta di beni e servizi, nelle interazioni su social network. Sono i dati relativi ai consensi resi sui social media (like), agli acquisti, al sentiment, alle ricerche effettuate attraverso i motori di ricerca, insieme ai metadati, a consentire di tracciare un profilo dell’utenza, collocarla in categorie e organizzare campagne informative di stampo fake.
Il caso Cambridge Analytica ha certamente reso la comunità più consapevole dei rischi che corrono le nostre democrazie; e del fatto che queste non hanno ancora sviluppato tutti gli anticorpi necessari per proteggersi. Le democrazie si reggono, necessariamente, sulla libertà di stampa e di espressione; ma quando le informazioni vengono volutamente alterate allo scopo di influenzare il pensiero e il voto di milioni di cittadini, allora ci si domanda come possano i governi reagire senza far venire meno uno dei pilastri fondamentali dei nostri Stati democratici. La battaglia contro le notizie false e ingannevoli si muove, cioè, su un delicato crinale, quello del diritto alla libertà d’informazione.
Il nostro sistema è interamente fondato sul presupposto del comportamento razionale degli individui (e, conseguentemente, delle loro forme aggregate). Così anche la stessa forma democratica degli ordinamenti statali e sovranazionali occidentali, nell’attribuire – mediante il meccanismo dei passaggi elettorali – la sovranità al popolo, assume come presupposto che il popolo prenda decisioni che, pur non essendo prive di componenti emotive, siano comunque guidate dalle sovrastrutture e dalla razionalità individuale.
La declinazione rappresentativa del sistema democratico inserisce, nel processo di formazione della volontà collettiva, dei contrappesi e dei filtri volti ad assicurare che si evitino derive plebiscitarie e, comunque, si sia meno facilmente vittime di orientamenti collettivi frutto di abbagli o contingenze estreme. E questo dovrà funzionare anche per il fenomeno delle fake news affinché la volontà dei cittadini resti indiscutibilmente centrale e fondamentale.
Prefazione al libro “Fakedemocracy – Il far west dell’informazione, tra deepfake e fake news” (Editoriale Novanta), di Alessandro Alongi e Fabio Pompei.