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Dieci anni dopo l’accordo di Parigi: cosa resta?

beppegrillo.it - Dicembre 30, 2025
di Thora Rasmussen

Nel dicembre 2015, il mondo assisteva a una scena storica: Laurent Fabius batteva il martelletto per sancire l’adozione dell’Accordo di Parigi tra gli applausi scroscianti di 195 delegazioni nazionali. François Hollande, seduto al suo fianco, non nascondeva l’emozione. Quel momento veniva celebrato come un traguardo epocale per l’intera umanità.

Un decennio più tardi, l’entusiasmo di allora appare lontano. La recente conferenza sul clima in Brasile, tenutasi a novembre, si è chiusa tra le proteste dei diplomatici e le loro rimostranze ignorate dai vertici organizzativi. Scene simili si erano già verificate l’anno precedente in Azerbaigian, segnalando una tendenza preoccupante: il multilateralismo climatico attraversa una crisi profonda.

Ma cosa resta davvero di quell’accordo storico? Quali progressi concreti sono stati raggiunti?

Il cuore dell’Accordo prevedeva di contenere l’innalzamento termico globale sotto i 2 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale, puntando idealmente a non oltrepassare 1,5 gradi. Tuttavia, la realtà attuale dipinge uno scenario allarmante: l’ultimo decennio ha registrato gli undici anni più roventi da quando esistono rilevazioni meteorologiche sistematiche, dal 1850. Il 2025 si profila come il secondo anno più torrido mai documentato, mentre il 2024 ha già infranto la barriera di 1,5 gradi, secondo i dati dell’Osservatorio Copernicus.

Attualmente, il riscaldamento si attesta intorno a +1,4 gradi. António Guterres, Segretario generale ONU, ha dichiarato senza mezzi termini che oltrepassare la soglia critica è “ormai una certezza”, conseguenza diretta dell’inadeguatezza delle misure climatiche implementate finora. Jim Skea, a capo dell’IPCC, ha confermato questa valutazione.

Si può dunque parlare di completo insuccesso? Non del tutto. Prima del 2010, le proiezioni indicavano un aumento di 4 gradi entro fine secolo. Le attuali politiche climatiche nazionali hanno ridotto questa stima a 2,8 gradi. L’Accordo ha quindi contribuito a rallentare la crescita delle emissioni, anche se non è riuscito a centrare l’obiettivo primario. La sfida ora consiste nel limitare al massimo la durata di questo sforamento. Contenere le temperature richiede innanzitutto un taglio drastico dei gas serra. Nel 2024, le attività umane hanno immesso nell’atmosfera circa 57,7 gigatonnellate di CO2 equivalente,  un incremento del 13% rispetto al 2010, secondo un rapporto ONU pubblicato a novembre. L’abbandono progressivo dei combustibili fossili rappresenterebbe la chiave per invertire questa tendenza.

Il problema fondamentale è che il testo del 2015 non affronta esplicitamente questa questione. Non si tratta di una dimenticanza casuale, ma del risultato di equilibri di potere tra Stati che tutelano i propri interessi economici e strategici legati ai combustibili fossili, come evidenzia Gaïa Febvre del Climate Action Network in un’analisi recente. Le conseguenze sono evidenti: la produzione continua ad aumentare, con Reclaim Finance che ha documentato ben 1.570 nuovi progetti estrattivi di petrolio e gas lanciati dopo l’Accordo di Parigi. Persino la Francia, paese ospitante del trattato e promotore di un’ambiziosa diplomazia climatica, sostiene attivamente TotalEnergies, i cui investimenti resteranno concentrati sugli idrocarburi fino al 2030.

C’è però un dato incoraggiante: le rinnovabili hanno raggiunto un terzo della produzione elettrica mondiale già nel 2024, con sedici anni di anticipo rispetto alle previsioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia del 2015. Purtroppo, questa espansione non sostituisce i combustibili fossili ma si aggiunge semplicemente alla crescente domanda energetica complessiva.

Nonostante questi dati scoraggianti, l’Accordo rimane l’unico riferimento internazionale nella battaglia contro la crisi climatica. Ha dimostrato una certa tenacia attraverso il ritiro statunitense sotto Trump, le crescenti tensioni geopolitiche e la pandemia. “Rappresenta l’unico strumento multilaterale ratificato da 194 Stati di cui disponiamo”, sottolinea Febvre.

Senza scadenza temporale, il trattato definisce una direzione comune: l’obiettivo di 1,5 gradi. Per rispettarlo, i firmatari dovrebbero aggiornare i propri piani di riduzione delle emissioni (NDC) ogni cinque anni. Quest’anno era prevista una revisione, ma il 95% degli Stati non ha rispettato la scadenza del 10 febbraio. Nonostante una proroga di sette mesi, molti rimangono ancora inadempienti.

Chi ha presentato i propri piani non ha offerto risultati incoraggianti: a fine ottobre, l’ONU ha rilevato che le nuove roadmap porterebbero a riduzioni delle emissioni tra l’11 e il 24% entro il 2035 rispetto al 2019. Per mantenere il percorso corretto, questa percentuale dovrebbe raggiungere il 57%. L’obiettivo resta quindi lontano.

Qui emerge l’ambiguità dell’Accordo: teoricamente vincolante, praticamente privo di meccanismi coercitivi per obbligare gli Stati al rispetto degli impegni, come analizza Marta Torre-Schaub, ricercatrice del CNRS. Un ulteriore ostacolo riguarda i finanziamenti. L’articolo 9 prevede che “i paesi sviluppati forniscano risorse finanziarie ai paesi in via di sviluppo”. I primi sono storicamente responsabili della crisi, mentre i secondi ne subiscono le conseguenze più gravi. Con il ritiro degli Stati Uniti, questa responsabilità grava principalmente sull’Unione Europea, che però cerca di coinvolgere la Cina, attualmente esentata dai contributi obbligatori.

Il risultato è uno scontro continuo sulla questione finanziaria, che amplia la frattura tra paesi ricchi e poveri. Il fallimento della COP29 ne è testimonianza: a fronte degli 1,3 trilioni di dollari necessari per la transizione degli stati vulnerabili, le nazioni più ricche si sono impegnate a versare 300 miliardi annui entro il 2035. Un accordo definito “ridicolo” e “neocolonialista” rispetto al debito climatico accumulato. Senza risorse adeguate, i paesi più poveri non possono elaborare piani ambiziosi che non sarebbero poi in grado di finanziare. Si innesca così un circolo vizioso.

Nonostante le critiche e le necessarie riforme alla governance climatica internazionale, “le COP e i relativi accordi rappresentano probabilmente la manifestazione più concreta della possibilità di mantenere una forma di multilateralismo, uno spazio per coltivare l’idea di costruire un mondo condiviso”, aggiunge Torre-Schaub. “Possiamo osservarle con scetticismo, ma l’alternativa è un conflitto generalizzato, il che rende l’Accordo di Parigi un patrimonio comune prezioso nell’attuale contesto geopolitico”, concorda l’antropologo Jean Foyer.

Sebbene non possa da solo fermare il riscaldamento globale, l’Accordo di Parigi ha il merito di indicare la direzione necessaria: abbandonare progressivamente i combustibili fossili, finanziare equamente la transizione e garantirne la giustizia per tutti, sintetizza Oxfam. “La storia ricorderà chi ha scelto di agire… e chi si è arreso”.

L’AUTORE

Thora Rasmussen, nasce e si forma ad Uppsala, specializzata in Chimica dei Materiali e chimica endotermica. Esperta in nanostrutture polimeriche per applicazioni biomediche. La sua ricerca si concentra su materiali sostenibili, celle a combustibile, superconduttori e materiali biodegradabili. Ha pubblicato numerosi articoli e partecipa a conferenze internazionali. Apprezzata per il suo approccio interattivo, partecipa a progetti di ricerca e collabora con aziende tecnologiche e ambientali. Promuove l’integrazione tra scienza dei materiali e sviluppo ecocompatibile, formando scienziati sensibili alle sfide ambientali globali.

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