di Matteo Bonelli – Da secoli crediamo in qualcuno “ch’a drizzare Italia verrà” (Dante, Paradiso, XXX, vv.137-138) per poi restarne invariabilmente delusi. Dunque sarebbe meglio liberarci dalla fissazione di rispecchiarci nel popolo di santi, poeti ed eroi scolpito nella pietra da chi abbiamo poi appeso a testa ingiù. Ma non ce la facciamo. E proseguiamo in direzione ostinata e contraria a ogni evidenza che la prosperità di un popolo dipende dalle sue regole, più che dalle capacità divinatorie dei suoi governanti.
Prendiamo, per esempio, tre questioni cruciali per il nostro tempo: crisi della democrazia, transizione digitale e futuro del lavoro. In Italia, e pure in Europa, versano in situazioni così precarie da far temere il peggio. A dire il vero la crisi delle democrazie si è vista anche in altri paesi occidentali, che ormai faticano a interpretare sentimenti popolari sempre più granulari e indecifrabili. La transizione digitale è invece un problema soprattutto dell’Europa, che – schiacciata tra l’egemonia di Stati Uniti e Cina – rischia di essere marginalizzata dallo spostamento del baricentro dell’economia mondiale dall’Atlantico al Pacifico. Ma rischia di fare la stessa fine anche nella creazione di nuovi posti di lavoro nella cosiddetta “gig economy”, che mal si concilia con la rigidità delle regole di molti stati europei; senza contare che dipende da un settore dove, come si è detto, l’Europa conta poco o nulla.
Cosa dobbiamo fare per fermare (o almeno rallentare) il declino del nostro paese, e forse anche dell’Europa? Innanzitutto abbandonare ogni speranza in fantomatici quanto improbabili eroi; e poi smettere di dimenarci forsennatamente su proposte vaghe e suggestive, e occuparci piuttosto di come metterle a punto. Con parole inglesi si potrebbe dire: passare dal “twerking” al “tweaking”.
Facciamo qualche esempio sulle tre questioni di cui abbiamo parlato.
Architettura delle scelte democratiche
Internet ha ampliato enormemente la possibilità di partecipare alle scelte democratiche e il desiderio di parteciparvi è testimoniato dalla moltitudine dei dibattiti che si sviluppano in rete su ogni questione d’interesse pubblico. Ci sono però scelte in cui è utile raccogliere la volontà dei cittadini, altre quella degli iscritti a un partito, a un movimento o a un’associazione, altre ancora in cui è invece preferibile che le scelte vengano prese da organi di rappresentanza, o tecnici. Quali debbano essere gli ambiti di ognuna può talvolta essere intuitivo, come stigmatizzò un noto articolo di Bloomberg del 2015: “Tsipras chiede alla nonna se l’accordo sul debito greco è equo”. Grazie al quale tutti si resero conto dell’inadeguatezza del referendum per scelte così articolate. Un ragionamento analogo vale per scelte teoricamente più semplici, ma le cui implicazioni restano molto complesse, come la Brexit. In altri casi lo spartiacque non è così facile, sebbene il ricorso alla consultazione dei cittadini (o degli iscritti) ovvero alla rappresentanza (o alla delega) dipenda quasi sempre dalla complessità del problema. E’ dunque giusto che le masse si esprimano su questioni semplici e di indirizzo generale, mentre i loro organi di rappresentanza e tecnici siano a chiamati a risolvere questioni più complesse e di dettaglio.
Occorre poi distinguere l’architettura delle scelte da diritti che attribuiscano ai singoli il potere di promuovere la tutela di interessi generali, che sono altrettanto importanti. In quest’ambito i margini di miglioramento sono pure più ampi, a partire dai diritti dei soci di minoranza nelle società quotate, dal cosiddetto “whistleblowing” dei lavoratori, per arrivare alle class actions (già migliorate con l’ultima riforma, ma non abbastanza) e, più in generale, alla sussidiarietà orizzontale dei corpi intermedi della società civile.
Nei paesi anglosassoni, e soprattutto negli Stati Uniti, da tempo esistono incentivi per attivare i privati nella tutela di interessi pubblici o diffusi. E’ importante sottolineare come l’allineamento dei privati all’interesse pubblico non dipende solo dall’istituzione delle regole, ma anche e soprattutto dalla loro messa a punto. Per esempio, il funzionamento della derivative action statunitense – vale a dire l’azione di responsabilità dei soci di minoranza di una società quotata – dipende in misura rilevante dalle prospettive dell’attore di ottenere il rimborso delle spese legali da parte della società. Sono così emersi, nel tempo, avvocati specializzati nello smascheramento di società gestite da amministratori infedeli o irresponsabili, che sono ovviamente spinti più dal “dettaglio” del rimborso delle spese legali che dall’interesse del loro “cliente”. Incentivi analoghi sono alla base del successo delle class actions, del whistleblowing e di molte indagini delle autorità antitrust in tutti gli Stati Uniti. Questi diritti non solo consentono ai privati di sostituirsi alle autorità pubbliche per prevenirne l’inerzia, se non la complicità con i responsabili degli illeciti, ma sono anche uno strumento per disintermediarli dalla rappresentanza politica o amministrativa, realizzando un’altra forma di democrazia diretta.
Sovranità digitale e governance dei dati personali
L’arretratezza dell’Europa nel settore digitale è da tempo al centro delle preoccupazioni dell’Unione Europea, che però non sembra aver pienamente colto il nocciolo del problema su cui si giocherà buona parte dell’innovazione digitale – dai trasporti all’intelligenza artificiale – che è la governance dei dati. Alcuni si ricorderanno il petulante Guy Verhofstadt fare domande impettite a Mark Zuckerberg, che sono solo servite a confermare (ove ce ne fosse bisogno) l’abisso di competenze fra i regolatori europei e i gestori delle Big Tech. Tant’è vero che dopo l’entrata in vigore del regolamento GDPR – che avrebbe dovuto restituire ai cittadini europei il controllo dei propri dati e assicurarne la custodia in buone mani – non è cambiato praticamente nulla. Così ci troviamo in una tutela della privacy che, paradossalmente, consente alle imprese digitali di scandagliarci e tracciarci per offrirci merendine e cotillon, ma non per confinare una pandemia che ha già causato più di un milione di morti.
La soluzione, ancora una volta, non dipende dall’istituzione delle regole, ma dalla loro messa a punto. Lo sanno bene le imprese del settore digitale, che impiegano centinaia di ingegneri e programmatori per rendere fruibile (e offrirci) ciò che ci interessa. E’ il contrario di ciò che avviene nella tutela dei dati personali, in cui il regolatore si è focalizzato su questioni di dubbia utilità (come il luogo in cui risiedono) ma non sul problema di renderli fruibili in modo da consentirci di sapere chi li gestisce, esercitare i nostri diritti e disporne liberamente. Ciò si potrebbe realizzare, per esempio, con l’obbligo dei gestori di metterli a disposizione di ogni interessato su indirizzi digitali certificati, analogamente a quanto già avviene per la posta elettronica certificata e il domicilio digitale. In questo modo tutti gli interessati potrebbero non solo verificare più facilmente chi sono i titolari di trattamento dei dati che li riguardano, ma anche esercitarne i propri diritti, ed eventualmente renderli disponibili chi ne faccia richiesta, favorendo la creazione di un mercato più trasparente e contendibile dei servizi basati sui dati personali.
Un altro modo per renderne più trasparente e contendibile il mercato dei servizi basati sui dati è di ordinare, o anche solo “riordinare”, gli obblighi informativi di cittadini e imprese al fine di alimentare database fruibili in regime di concorrenza. Incidentalmente, è proprio grazie a un approccio analogo a cui dobbiamo la nascita di internet e di molte scoperte della ricerca scientifica.
Lavoro di cittadinanza
Si è detto che la rigidità delle regole sul lavoro mal si concilia con l’economia digitale, e non solo. Al tempo stesso una maggiore flessibilità rende ancor più imprescindibili gli ammortizzatori sociali di portata generale.
Il problema è che le regole sul lavoro sono quelle più viziate dal “twerking” dei pregiudizi ideologici che si scaricano sulle imprese anche quando sono insostenibili. Spesso ci si dimentica, però, che una repubblica “fondata sul lavoro” (art. 1 Cost.) non dovrebbe limitarsi preservarne la funzione materiale ma concepire il lavoro come un mezzo per realizzarsi individualmente e socialmente. Dunque, se è doveroso non lasciare nessuno indietro – e a tal fine servono ammortizzatori sociali di portata generale – è anche opportuno che da ognuno (e in primis dai beneficiari degli ammortizzatori sociali) ci si aspetti un impegno per realizzarsi e per realizzare il “progresso materiale o spirituale della società” (art. 4 Cost.).
John Ruskin è noto per aver descritto le cattedrali gotiche come simboli della partecipazione dei cittadini alla loro costruzione. La sua è una visione del lavoro che trascende la sua funzione produttiva e di sostentamento, estendendosi alla sua funzione spirituale, etica e sociale. Ma non si può pretendere che se ne facciano carico solo le imprese, che devono poter competere in mercati sempre più globali. Senza contare che lo stesso capitale umano potrebbe essere impiegato più utilmente altrove, mentre imporlo a un’impresa che non ne ha bisogno o non lo vuole può solo essere fonte di risentimenti reciproci, che ne pregiudicano irrimediabilmente la sua funzione spirituale e sociale.
Purtroppo il nostro sistema normativo sembra cospirare per impedire l’impiego di molti percettori di ammortizzatori sociali in attività di utilità sociale o precarie, diversamente da quanto accade altrove. Uno degli esempi più noti è quello dei cosiddetti “Piani Hartz” del sistema tedesco, che sono stati fondamentali per il riscatto economico della Germania, che negli anni novanta era stata definita il “malato d’Europa”. E’ solo il caso di osservare, tra l’altro, che lo sfruttamento di questi “giacimenti” di capitale umano potrebbe essere un modo per superare vincoli di bilancio e aiuti di stato imposti dalle regole europee.
In conclusione, piuttosto che confidare nell’arrivo dell’ennesimo salvatore della patria, o in panacee di tutti mali, potremmo dedicare un po’ più di attenzione alla messa a punto delle regole che gran parte dei cittadini condividono, ma non funzionano bene. Per farlo occorre una sobrietà e una dedizione che forse non ci si può attendere dalla classe politica, ma talvolta basterebbero piccoli accorgimenti che favoriscano l’attivazione degli stessi processi iterativi e di correzione che sono anche alla base dell’evoluzione biologica.