di Riccardo Vicinanza – La condizione di marginalità del Mezzogiorno nell’economia internazionale è strettamente legata alla sufficienza con cui l’Italia, malgrado i suoi 7500 km di costa al centro del Mediterraneo, guarda al suo mare. Non è una casualità: la configurazione terrestre dei flussi economici nel Belpaese, che ha portato negli anni all’abbandono del sud e alla subalternità del settentrione rispetto alla catena del valore mitteleuropea anziché ad una proiezione marittima strategica, ha radici che risalgono sino ai tempi dell’unificazione, quando l’impero britannico intervenne a sostegno dei Savoia con l’obiettivo di assicurarsi la supremazia nel Mediterraneo a danno degli spagnoli. Il mensile Limes del novembre 2020 è dedicato interamente a questo tema, e suona come un vero e proprio j’accuse nei confronti della classe dirigente italiana, politica ed economica, ripiegata sul miope e cinico perseguimento di interessi a breve termine.
D’altronde, se l’Italia ha tutto l’interesse a mettere a frutto la sua conformazione naturale, è innanzitutto il Mezzogiorno che deve rendersi conto di un tale patrimonio dimenticato: senza la valorizzazione di ciò che nei secoli è stato teatro di legami, contaminazioni culturali, commercio, scambio di saperi e di tecniche, vale a dire senza un’economia del mare nel suo senso etimologico più puro (quello di “amministrazione della casa”), non c’è sviluppo territoriale possibile, ma solo una timorosa chiusura all’interno dei ristretti confini costieri, un’infelice rinuncia a tutto ciò che ci circonda.
Allo stesso tempo va anche considerato che il cambiamento climatico e le attività umane stanno impattando duramente la regione Mediterranea. Qui, dove ogni anno transita ben un terzo del commercio marittimo globale, il riscaldamento corre ad un ritmo del 20% più veloce della media, e le proiezioni indicano che nel 2050 vi nuoteranno più plastiche che pesci. La transizione ecologica e lo sviluppo sostenibile sono dunque oggi un imperativo urgente e imprescindibile, e numerose sono le strategie disponibili per pianificare il presente e il futuro: dai 17 obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, alla Mediterranean Strategy for Sustainable Development, elaborata dalla UNEP/MAP, i dati e le direttive non ci mancano – non resta che metterle in pratica.
Poche settimane fa, l’intergruppo del Parlamento Europeo “SEArica”, incaricato dello sviluppo costiero e delle politiche marittime in particolare nei territori periferici, ha organizzato una conferenza per rafforzare una dimensione “blu” del Green Deal Europeo, il piano di investimenti firmato nel 2019 dalla Commissione Europea che orienta la transizione ecologica ed energetica dell’UE. Ma che cos’è la blue economy? Energie marine rinnovabili, acquacoltura, turismo costiero e trasporto marittimo sostenibili, bioeconomia: ogni attività con una dimensione fortemente marittima, a emissioni zero e pianificata sulla base di studi di ampio raggio che ne impediscano eventuali esternalità negative sugli altri settori, attraverso ciò che viene chiamato maritime spatial planning. A riprova dell’attenzione e dei finanziamenti sempre maggiori di cui gode questo settore, numerose piattaforme di progettazione sono nate in questi anni, tanto sulla bioeconomia blu quanto sulla cosiddetta crescita blu. E le sfide da affrontare sono tante. Qualche esempio? Il problema degli sversamenti dovuti al trasporto marittimo, o degli olii e delle acque nere delle imbarcazioni; la destinazione d’uso di rifiuti speciali come le alghe attraverso forme di riciclo circolare; la decompressione del turismo di massa attraverso la valorizzazione di circuiti lenti e periferici; o ancora il settore delle rinnovabili marine, che la Sicilia conta di inaugurare con il più grande parco eolico galleggiante al mondo.
In molti l’hanno capito, e fra questi anche i genovesi, che hanno recentemente fondato il Genova Blue District: un hub cittadino con l’obiettivo di convogliare innovazione tecnologica, giovani imprenditori dell’economia blu, e grandi investitori che hanno immediatamente fiutato l’affare.
Non bastano tuttavia le buone intenzioni dei privati. Un’economia marittima sostenibile non potrà decollare senza delle misure pubbliche che la incentivino attraverso una politica marittima integrata, aiuti economici e sgravi fiscali per le idee a zero impatto ambientale, e in stretto legame con la ricerca. Ciò richiede l’esistenza di un organismo specifico deputato all’amministrazione del mare in tutti i suoi aspetti, che raccolga su di sé una serie di funzioni oggi disperse in tanti ministeri diversi: solo per citarne alcuni, i trasporti e la portualità sono dominio del Mit; la pesca e l’acquacoltura del Mipaaf; la tutela della biodiversità del Mattm (oggi rinominato Ministero della Transizione Ecologica); le estrazioni minerarie sottomarine e l’energia del Mise.
Negli ultimi trent’anni, inoltre, il processo di smantellamento degli enti locali e di dismissione della pianificazione pubblica è stato accompagnato dal graduale trasferimento di numerose funzioni verso le sedi europee corrispondenti. Questa tendenza ha poi identificato nelle regioni il livello di amministrazione incaricato dell’interlocuzione e della cooperazione con le istituzioni europee, e anche dell’investimento dei fondi di coesione e di sviluppo territoriale. Nonostante una tale responsabilità, la dimensione europea delle regioni è scarsamente percepita dai cittadini, che hanno invece l’abitudine di ricercare i colpevoli dei problemi sociali nelle amministrazioni comunali (ovunque prossime o nel pieno del dissesto finanziario) o nel governo nazionale. Così le regioni, in taluni casi, sono silenziosamente diventate terreno di depredazione, formicai del malaffare, spazio di influenza di grandi imprenditori dell’entroterra piuttosto che di politici di qualità; ponendo inoltre, nel contesto della pandemia, numerosi interrogativi sull’annoso processo di decentralizzazione, che alcuni hanno fatto notare. Serve allora pretendere da questo livello amministrativo un impegno e una strategia all’altezza dei tempi. Se la blue economy rappresenta una fucina di opportunità per il Mezzogiorno e per i giovani, e negli anni a venire sarà al centro dei piani di investimento dell’Unione, senza ricerca, conoscenze tecniche e regolazione pubblica potrebbe diventare l’ennesima occasione di speculazione a breve termine, devastazione sociale e ambientale. I cittadini del Mezzogiorno sapranno cogliere quest’opportunità?
L’AUTORE
Riccardo Vicinanza – Laureato in Lingue (arabo e francese) all’Università Orientale di Napoli e poi al Master “MIM” di Cooperazione e Sviluppo nel Mediterraneo dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha lavorato e fatto ricerca in Italia, Francia e Marocco, occupandosi soprattutto di migrazioni, sociologia urbana e sviluppo sostenibile. Attualmente svolge un tirocinio alla Conferenza delle Regioni Periferiche e Marittime (CRPM), con sede a Barcellona, sui temi di coesione territoriale, economia blu, trasporti e turismo sostenibili. Collabora inoltre con Prossima Napoli per la redazione di un manifesto di sviluppo sostenibile e democrazia radicale per la città di Napoli; e con la rete Il Sud Conta, a difesa dei diritti del Mezzogiorno.