di Michele Diomà – Anno 1963 esce nelle sale italiane “Le mani sulla città”, capolavoro diretto da Francesco Rosi dedicato al tema della speculazione edilizia. Il film, che ha inizio con la scena del tragico “crollo di un palazzo”nel pieno centro di Napoli, analizza i rapporti occulti di potere tra la classe politica dominante di quegli anni ed “un’imprenditoria” delinquenziale, pronta a tutto pur di cementificare ogni angolo del paese. Una sceneggiatura fondata sul principio del “necessario diritto al dissenso dell’artista nei confronti di chi detiene il potere”.
In quello stesso 1963 a Genova ebbero inizio i lavori per la costruzione del viadotto Polcevera, destinato a prendere il nome di Ponte Morandi.
Cosa lega le due storie oltre all’anno 1963?
Un interrogativo al quale può rispondere ancora oggi il film stesso, perché le “Mani sulla città” è un’opera che non si limita ad illustrare dei fatti di cronaca già noti, che non si presta al gioco di chi detiene il potere, che potrà sempre usare l’alibi del “finto cinema di impegno civile”, per dire che la libertà d’espressione in Italia è garantita.
Del resto non è certo il tema trattato in un film a determinarne la qualità estetica, dato che si può affrontare con superficialità un argomento sociale molto complesso e viceversa raccontare con grande profondità analitica anche una storia apparentemente semplice.
Ma “Le mani sulla città” con oltre mezzo secolo d’anticipo preannuncia quello che sarebbe accaduto lasciando il paese nelle “mani” di una classe politica corrotta e pronta a tutto pur di garantirsi consenso elettorale e finanziamenti pubblici, anche a costo di mettere a rischio l’incolumità di cittadini ignari di vivere in strutture pericolanti.
Affermare che la visione di un film potrebbe evitare delle tragedie come quella del Ponte Morandi, può sembrare, forse a qualcuno, persino irrispettoso, ma non per chi considera il Cinema, la più potente forma di analisi sociologica.
Tutto ciò conferma che rivedere alcuni grandi film del passato, come “Le mani sulla città” può essere un modo per leggere il presente, e forse, anche per programmare il futuro.