Vissuto, Riflessioni e Strumenti di Pace da una Colombia in guerra.
Discorso sull’Educazione Inclusiva in tre Atti
Atto II: Inclusione e Comprensione delle Divergenze, La Metodologia MEFES
di Giovanni Scarascia – In questo secondo atto si “racconta” la Metodologia sviluppata nei miei tre anni di collaborazione con la Segreteria di Educazione del Municipio di Bello, alle porte di Medellin. Utilizzo il termine racconta perchè il fine non è “spiegare” una metodologia, ma semplicemente quello di trasmettere una maniera di affrontare delle difficoltà sociali. Di fatto non ha la struttura del saggio o dell’esposizione.
Questo non significa che ciò che viene proposto non abbia queste caratteristiche. Semplicemente non mi sembra il luogo e il momento di perdersi in tecnicismi, priorizzando, invece, la trasmissione di un’attitudine inclusiva e non giudicante portata avanti da chi ha partecipato in questo cammino, rispetto alle vite che i beneficiari hanno, loro malgrado, vissuto.
Quando si propone una Metodologia Pedagogica, soprattutto se questa deve “compenetrare” il sistema pubblico, si devono tener presente differenti aspetti, soprattutto in riferimento al contesto e agli obbiettivi.
Uno degli obbiettivi era sicuramente recuperare anni scolastici; era quindi necessario pensare per cicli e non per anni (un ciclo, 2 anni, 2 anni in uno per intenderci). Si doveva, quindi apportare prima di tutto una modifica al currículum didattico, cioè a quello che gli studenti devono conoscere o saper fare a fine del ciclo. In Italia questi si chiamano standard di competenze, che si raggiungono con le “maglie curriculari”; quindi si doveva proporre una “compressione” delle stesse senza però intaccare gli standard di competenza (cosa complicatissima); giocare con la flessibilità, la trasversalità, l’ interdisciplinarietà.
Parentesi: il sistema colombiano e quello italiano hanno alcune caratteristiche simili, come tutti i sistemi del mondo, più o meno, dovendo vivere in una globalizzazione dei riconoscimenti accademici. Sarebbe lungo e tedioso esporre le strutture burocratiche che permettono di fare modifiche al sistema rimanendo nei limiti della legge, però la proposta metodologíca o parti di essa, potrebbe benissimo essere applicata anche in Italia.
L’altro obbiettivo era una sorta di recupero affettivo ed emozionale del giovane, che viene da anni di difficoltà e stigmatizzazione, di ascolti mancati e grida acute. Aiutarlo a ri-significare se stesso e il mondo, aiutarlo a trovare il suo talento e la sua missione, recuperarlo a volte dal consumo di sostanze, o dal facile costume, da tutte quelle esperienze che affogano la sensibilità di questi ragazzi, senza che nessuno lanci loro nemmeno un salvagente. Ma limitandoci a segnalarli con il dito medio (ripeto medio, non è un errore), ricordando che la responsabilità è sempre condivisa, soprattutto con esseri in formazione. Quindi proporre un intenso lavoro sul piano emozionale che possa far recuperare “ciò che la guerra toglie,” far recuperare “ciò che la pace dà” (tema che si riprenderà più in là).
In questo obbiettivo stava soprattutto il tentativo di “agganciare” la famiglia del giovane nel processo di formazione, perchè sappiamo che i ragazzi sono l’espressione delle lacune che hanno gli adulti. Si doveva proporre e pretendere quindi il coinvolgimento di almeno una figura genitoriale con l’ambizione necessaria di poter instaurare una relazione di collaborazione e comunicazione con le famiglie, tale da poter mantenere la fiducia e l’appoggio in caso di intervento e la garanzia di poter far seguire ai cambiamenti propiziati nelle aule, contesti comunicativi e regolativi coerenti nelle case.
Il terzo obbiettivo era non causare problemi o traumi ai docenti e ai direttivi dei collegi, che si vedevano, per la prima volta una classe completa di “mele marce”, alcuni senza possibilità di scelta, alcuni senza nemmeno aver gli strumenti per non farsi male o per non far del male… (ho visto cose che voi umani…). In completa sperimentazione e facendo appello alla capacità di destrutturare l’appreso e fluire con la sensibilità (anche qui ho visto cose straordinarie…).
L’ultimo obbiettivo era quello di cambiare il modo in cui la società vedeva questi studenti e come li indicava, li giudicava. Non era facile far accettare alla comunità la presenza massiccia di queste classi “differenti”.
Seguendo questi obbiettivi e queste necessità, si proponeva una fase di preparazione molto intensa e molto severa.
C’è da premettere che questi ragazzi arrivavano a noi come ultima speranza, dopo decine di portoni sbattuti in faccia in malo modo. Nessun collegio li aveva accettati. L’alternativa sarebbero state le scuole serali o finesettimanali. E a 14-16 anni è una tragedia.
Quando si presentano da me io mostro il mio miglior sorriso e cerco di fargli capire il loro valore, mi mostro onorato di averli con me e di poter lavorare con loro; gli offro appoggio e comprensione, complicità a volte, se serve, e possibilità di rinascita non oltre l’autosabotaggio.
Dopo aver offerto tutto questo si presentano le regole di partecipazione e il contratto di accompagnamento (firmato da loro e dal genitore). Una serie di accordi e compromessi messi nero su bianco che aprono la strada ad una Autorità forte e sana, indiscutibile e decisiva, completamente nelle mani del consiglio direttivo del collegio (con cui spesso e volentieri ho dovuto discutere fino alla spossatezza, mia o loro). Tutto questo in una sorta di colloquio di selezione semi-strutturato fatto con TUTTI GLI ASPIRANTI che dura più o meno 30-40 minuti e che inizia con la domanda decisiva: TU VUOI STUDIARE? VUOI CAMBIARE? TI VUOI FARE ACCOMPAGNARE? Se la risposta è “si” devono seguire azioni concrete e coerenti in questa direzione. Nel caso contrario non sarò io a escluderlo, sarà lui stesso a farlo.
Si consideravano anche delle regole di presentazione personale abbastanza stringenti. Anche se esiste una legge sul “libero sviluppo della personalità”, si assumeva che se questi ragazzi stavano lì, è anche perchè questo sviluppo libero non stava andando poi così bene… si doveva mettere un limite a questa libertà. Quindi si pretendeva un aspetto presentabile fin dal colloquio di presentazione. Cioè se qualcuno arrivava con i capelli troppo lunghi o disordinati, gli si diceva di passare da un parrucchere, prima di poter sostenere l’intervista. Un paio non sono più tornati, la maggior parte si, tutti però mi hanno guardato con un’espressione a dir poco allibita quando pretendevo, seriamente, il cambio di look.
La scelta di cambiare presuppone una rinuncia. E se il giovane non è disposto a rinunciare a qualche centimetro di capelli, o a un piercing o al trucco troppo vistoso, o alle unghia fosforescenti, allora sicuramente non risponderà bene alle sollecitazioni. Meglio non iniziare. Spreco di energie. Sembra cinismo, però è il principio della sana Autorità, necessaria a non soccombere di fronte a determinate situazioni. Non si possono salvare tutti, soprattutto non si può salvare chi non vuole essere salvato, o chi non crede di averne bisogno. Ho dovuto rinunciare a qualche battaglia, poche per fortuna, però me le ricorderò per sempre.
L’accordo di partecipazione prevede l’obbligatorietà a partecipare a gruppi di comunicazione continua da parte dei genitori, sfruttando le reti sociali. Una sorta di reperibilità in caso di emergenza (e in questi casi le emergenze sono il pane quotidiano). Si incita inoltre la comunicazione e l’appoggio tra i genitori, con un docente e con un assistente di riferimento, in luce di una continua collaborazione. È necessario instaurare un’alleanza con i genitori, perchè molti interventi potrebbero essere fraintesi, o urtare la sensibilità di qualcuno, o per lo meno sorprendere.
Nella fase di preparazione si tengono molti incontri con docenti e direttivi per mettere a punto quel sistema di regole e contenzione necessarie a salvaguardare la sicurezza di tutti e la applicazione dei differenziali ritenuti utili. Questi differenziali riguardano il processo di attenzione e intervento, l’applicazione del manuale di convivenza, gli strumenti pedagogici direzionati al seguimento accademico, le modifiche al sistema curriculare, il ruolo delle figure di accompagnamento psicologico e pedagogico.
Non è mai facile applicare cambi ad un sistema complesso. È necessario pensare AL SISTEMA intero e prevedere e propiziare i cambi necessari a tutti gli elementi del sistema stesso, per far si che il tuo intervento non venga rigettato o sabotato o negato.
Una delle caratteristiche fondamentali di questa metodologia è il concetto di responsabilità. Un’ AZIONE che lede la libertà o la dignità o peggio ancora la sicurezza e la salute di altri viene trattata come un tema aperto, come una mancanza di compromesso e coerenza. Per tanto viene “risolta” o riconciliata con l’offeso, o ristabilita con un’altra AZIONE (e non con una punizione o una sanzione o un allontanamento) PEDAGOGICA RIPARATRICE (APR per gli amici). Quest’azione deve essere tematicamente coerente con l’“infrazione” e da questa prendere spunto per generare un pensiero critico sulle proprie responsabilità e sulle proprie azioni. Faccio solo 2 esempi, però ci sono TANTISSIME forme di APR che devono avere il carattere dell’ironia e la creatività. Non devono umiliare l’altro ma far provare, se e quando serve, quella vergogna verso se stessi da cui prende forma il pensiero critico e autocritico. Soprattutto però devono mandare un messaggio chiaro. Ognuno è responsabile di quello che fa. Ed è responsabile della riparazione del danno, che sia a cose, a persone, e soprattutto verso se stessi.
Con alcuni studenti molto “inquieti” (quelli che parlano sempre, giocano, non stanno mai seri, non hanno un compromesso forte con la propia missione di vita) si crea un progetto di “appadrinamento”: in ORARIO EXTRASCOLASTICO(!!!) 2 o 3 volte la settimana, devono aiutare i docenti delle scuole “elementari” con i loro studenti: leggere e scrivere, calcoli semplici, arte e ed.fisica. Fondamentalmente dovevano spendere energie, imparare a prendersi cura di qualcun’altro insopportabile come loro, sviluppare empatía con i professori, abbuffare il proprio IO bambino interno.
A 4 studenti che avevano disegnato apparati riproduttori maschili sul muro si assegnò la APR di Dover dipingere il muro della classe (TUTTO, E A SPESE LORO) una domenica mattina, con i loro papà. Fu qualcosa di memorabile. Non avevano mai passato un tempo di qualità come quello con i loro padri (altra questione che meriterebbe un capitolo a parte); Dipinsero la classe perfettamente, le madri portarono vasi con fiori, si mangiò insieme e si riparò al danno. Da quel giorno nessuno si è più permesso di imbrattare nulla, iniziammo a chiamarci “trionfatori”, avevamo il salone più bello di tutti. Eravamo i VIP, non gli esclusi (un po’ di PNL non guasta).
Butti una carta per terra? Passerai la ricreazione a raccogliere quello che buttano gli altri; arrivi tardi? rimani più tempo; offendi qualcuno? Gli chiederai scusa di fronte a TUTTO il collegio, con microfono incluso; rubi una lattina? Aiuterai la signora che le vende per qualche giorno durante la ricreazione; ecc ecc
Queste azioni sono sempre concordate con i genitori e nel rispetto della dignità, però decisive, difficili da fare a volte, però sacrosante e irrinunciabili. La mancanza di compimento della APR genera un allontanamento dal salone di classe. La “sanzione” più grave è la desescolarizzazione. Cioè si lascia a casa lo studente, chiamandolo una volta a settimana per ricevere e consegnare “compiti a casa”. Questo provvedimento è stato preso pochissime volte e non sempre ha comportato la perdita del ciclo scolastico.
Un’altra caratteristica è il seguimento continuo, pedagogico e Psico-affettivo, con differenze nel sistema di valutazione e di gestione delle storie di vita.
Per fare questo si programmano incontri settimanali di formazione e condivisione con i docenti, a volte sacrificando qualche ora di lezione, ma con l’obbiettivo di essere un corpo unico, perfettamente coordinato, compartendo proposte e impressioni, lavorando sulle storie di vita degli studenti, nome per nome, caso per caso, faccia per faccia e senza possibili vie di fuga alle responsabilità di nessuno.
Il lavoro di prevenzione si predilige a quello di intervenzione. La prevenzione si costruisce per esempio con la formazione ai docenti sulle storie di vita, per particolarizzare i loro interventi; con il controllo serrato degli ambienti e dell’ingresso: salutare i ragazzi all’entrata ti aiuta a riconoscere chi sta triste, chi puzza perchè non si è lavato, chi perchè ha fumato, chi ha gli occhi rossi e lucidi, chi non rispetta le regole di presentazione (che si rimanda a casa se necessario), chi arriva insieme, chi si separa (abbracciando uno una volta gli ho beccato una pistola!).
La sensibilità, l’osservazione e le remissioni dei docenti, permettono di abbordare con tempestività le situazioni che potrebbero desbordare se non affrontate. E la costruzione di una relazione positiva e di fiducia permette di accedere alla sensibilità dei ragazzi, che spesso, incontrando qualcuno che chiede la loro versione e li ascolta senza giudicarli, si lasciano andare a confessioni a volte assurde, altre divertenti, altre scabrose (nel 2016 una ragazza mi ha confessato di star lì per “cercare” ragazze disponibili a partecipare a incontri con un uomo 40enne… praticamente sfruttamento della prostituzione minorile!!!). Potrei stare ore raccontando scene incredibili di feroci battaglie e/o commoventi abbracci.
Ad ogni modo l’APR rappresenta una “seconda possibilità” continua, perchè sempre hanno l’ opportunità di recuperare un “errore” e per questi ragazzi, a cui di possibilità non ne hanno offerta mai nemmeno una, cattivi a prescindere, è un cambio epocale.
Tutti i conflitti si affrontano non dal punto di vista psicologico, o della terapia, che sarebbe troppo lenta, ma basandosi sulla teoria del conflitto e sulla Mediazione come strumento principale di risoluzione. Il “problema” di uno quindi si trasforma in un incontro di differenze gestito male. Non si colpevolizza nessuno, ma si responsabilizzano tutti gli attori del conflitto sulla sua comprensione, e sulla pacifica risoluzione.
Infine gruppi di interesse, attività extra-scolastiche, intelligenze multipli e condivisione di sapere e quanto più si possa offrire per aiutarli a incontrare la parte migliore di loro stessi, e offrirla agli altri.
La proposta metodologica è molto amplia e completa e cerca di considerare tutti gli aspetti del mondo scuola (ovviamente, in questa sede ho trattato alcuni argomenti e in modo più o meno superficiale, per evitare di estendermi troppo).
Tra l’altro la brusca interruzione dei lavori non ha permesso di mettere a punto tutte le strategie teorizzate, facendo di questo lavoro, più che una metodologia, una proposta metodologica (che sono due cose diverse).
Mi ha permesso però di lavorare a sufficienza sull’“Allenamento Emozionale”, che è il primo passo del Programma “Epicentro di Pace” che poi ho continuato a sviluppare e migliorare e che è “raccontato” nel 3° e ultimo Atto di questo Discorso.
L’AUTORE
Giovanni Scarascia – Salentino, Inquieto, Curioso, Vagamondo senza credo. Analista Critico. Cultore del Cambio e delle Differenze. Costruttore di Ponti. Guerriero della Pace. Dal suo piccolo paesino alla fine della terra, ha camminato tanto, tra la pianura padana e la romagna, affinando i suoi occhi. Espatriando poi in Catalunya, continuando al di là dell’Oceano verso Buenos Aires, arrivando infine a Medellin, aprendo sempre di più la sua sensibilità. Nel cammino ha raccolto qualche scartoffia e uno zaino pieno zeppo di cose manco fosse Mary Poppins. Psicologo Clinico-Dinamico dell’Università degli Studi di Padova. Esperto in Mediazione e Risoluzione Pacifica di Conflitti presso Università in Svizzera e Argentina. Sua nonna diceva di lui che “può nuotare nella merda e uscirne pulito.”