Un presidente della Repubblica che fa distruggere i nastri delle conversazioni con un indagato in un processo di mafia, Nicola Mancino, e poi si rifiuta di rispondere pubblicamente (e cosa c’è di più pubblico del presidente della Repubblica?) ai giudici non si è mai visto.
Cosa teme Napolitano? Più di così non potrebbe essere squalificato agli occhi dell’opinione pubblica. La sua reazione è già di per sé un’ammissione di colpevolezza. Forse la sua rielezione è servita proprio a questo, a metterlo in una situazione di massima sicurezza. Lo sapremo in futuro, questo è certo, troppi sono stati coinvolti nella Trattativa Stato-Mafia perché non venga alla luce la verità. qualunque essa sia.
C’è qualcosa di inquietante nelle ripetute telefonate di Mancino, al di là del contenuto delle stesse. Mancino sapeva di essere intercettato. Telefonare al Quirinale con l’insistenza con cui lo ha fatto non poteva che inguaiare Napolitano, cosa che poi è puntualmente successa, e quindi “ubi maior minor cessat“, l’attenzione si è spostata completamente sul presidente della Repubblica che invece sulle eventuali responsabilità di Mancino che, va ricordato, vide poco prima del suo assassinio Paolo Borsellino nel suo ufficio al Viminale (era allora ministro degli Interni) in cui era presente Bruno Contrada, condannato in seguito in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Borsellino uscì dall’ufficio sconvolto e fumando due sigarette alla volta come testimoniò un suo amico/collaboratore. Mancino in seguito non ricordò neppure di averlo incontrato.
Se sulle risposte di Napolitano ai giudici non sussistono dubbi, saranno state del tenore: “Non c’ero, se c’ero non mi sono accorto di nulla e alla mia età mi appisolo di frequente“, sono invece più interessanti le domande che possono avergli posto i giudici.
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