di J. Lo Zippe – Molte persone hanno familiarità con il presenteismo, atto in cui i dipendenti trascorrono molte più ore sul posto di lavoro del necessario. Lo fanno per senso del dovere, per impressionare il capo o perché spesso ci sono delle regole non scritte a cui si deve sottostare. Il fatto è che il presentismo danneggia la produttività, indebolendo proprio l’economia, e molte aziende ora se ne stanno accorgendo. Poi ci sono i dipendenti che finiscono di lavorare a casa, perché non riescono a completare i propri compiti durante il normale orario di lavoro. Può succedere che lavorino anche durante le ferie o le vacanze.
In un rapporto Deloitte, Salute mentale e datori di lavoro, è emerso che il 51% dei dipendenti lavorava al di fuori degli orari previsti. Il rapporto afferma che i professionisti più giovani sono più inclini ad esaurimento e preoccupazioni finanziarie e hanno il doppio delle probabilità di soffrire di depressione rispetto al dipendente medio.
Questo è il tempo del “sempre disponibile” o del “mai disponibile”. Sono i due orientamenti, due comportamenti contrastanti, ma che si possono trovare simultaneamente nei luoghi di lavoro.
Siamo in un’era in cui le persone hanno molta più paura di perdere il lavoro che in passato. Le aziende hanno operato in una economia a bassa crescita nell’ultimo decennio, il che ha significato una maggiore attenzione alla redditività, compresi i costi del lavoro. Accanto a questo, oggi c’è la prospettiva di un numero sempre maggiore di lavori automatizzati nei prossimi anni. Insomma, il periodo che viviamo non è facile, ma cosa ha comportato tutto questo? Un numero maggiore di dipendenti che devono convivere con carichi di lavoro eccessivi e capi impauriti che gestiscono male le persone e non danno loro sufficiente autonomia. A questo contribuisce sicuramente anche la tecnologia, che sta cambiando il modo in cui facciamo il nostro lavoro. Soprattutto la tecnologia sta influenzando la capacità delle persone di interrompere l’orario di lavoro, di uscire effettivamente dall’orario di lavoro. Un esempio banale è quando un dipendente risponde a telefonate, e-mail di lavoro o, più facilmente a chat istantanee. A prima vista, questi comportamenti possono sembrare abbastanza innocui e che facciano ormai parte della vita lavorativa dei nostri giorni (Nel 2017 in Francia è entrato in vigore il “diritto di disconnessione” una legge secondo cui i lavoratori hanno diritto a non rispondere a mail e telefonate al di fuori degli orari di lavoro).
L’equilibrio tra lavoro e vita privata sta diventando un ricordo del passato. Siamo di fronte a un fenomeno di integrazione tra lavoro e vita privata incessante. Anche se non siamo a lavoro, non siamo rilassati. Lo stress e la depressione rappresentano ora il 57% di tutte le assenze a lungo termine dal lavoro. Hanno sostituito le malattie fisiche, come il mal di schiena, arti rotti, influenza e persino maternità. Secondo il più recente indice di benessere sul luogo di lavoro del Regno Unito, i dipendenti depressi o sotto forte stress ricorrono più frequentemente alle ferie piuttosto che rivelare i propri problemi di salute mentale.
A fronte di tutto ciò i manager e i datori di lavoro dovrebbero incoraggiare il personale a prendersi una vacanza, a dedicarsi anche a se stessi, e dovrebbero rispettare il tempo di libero. Dovrebbero incoraggiare il telelavoro o l’homeworking (attualmente in Cina a causa del Coronavirus c’è stata un’impennata del lavoro da casa, una situazione che sicuramente contribuirà all’ascesa di questo approccio lavorativo). Dovrebbero anche distribuire il lavoro in modo equo e corretto, assicurando un’adeguata copertura per tutti i collaboratori, in modo che il lavoro non si accumuli in attesa del loro ritorno.
Aspettarsi invece che tutti i dipendenti facciano sempre di più, siano sempre disponibili e sempre operativi, è una falsa economia. Si tende a perdere le persone migliori e a fare più danni.