Di seguito la traduzione dell’articolo di Yuval Noah Harari, storico, saggista e professore universitario israeliano.
Gli animali sono le maggiori vittime della storia e il trattamento degli animali da allevamento è forse il peggior crimine. La marcia del progresso umano è costellata di animali morti. Decine di migliaia di anni fa i nostri antenati dell’età della pietra erano già responsabili di una serie di disastri ecologici. Quando i primi esseri umani raggiunsero l’Australia, circa 45.000 anni fa, portarono velocemente all’estinzione il 90% dei grandi animali che abitavano quella terra. Questo fu il primo significativo impatto che l’Homo Sapiens ebbe sull’ecosistema del Pianeta. Non fu l’ultimo.
Circa 15.000 anni fa, gli umani colonizzarono l’America, facendo pulizia di circa il 75% dei suoi grandi mammiferi. Numerose altre specie scomparvero dall’Africa, dall’Eurasia e dalle miriadi di isole attorno alle loro coste. I reperti archeologici, di paese in paese, raccontano la stessa triste storia. La tragedia si apre con una scena che mostra una ricca e varia popolazione di grandi animali, senza alcuna traccia di Homo Sapiens. Nella seconda scena appaiono gli esseri umani, e ciò viene mostrato tramite un fossile d’osso, una lancia o un accampamento attorno al fuoco. La terza scena segue velocemente, in essa uomini e donne occupano il centro del palco e molti dei grandi e piccoli animali scompaiono.
Tutti insieme, i Sapiens hanno portato all’estinzione circa il 50% di tutti i grandi mammiferi terrestri del Pianeta ancor prima di aver piantato il primo campo di frumento, dato vita al primo strumento di metallo, scritto il primo testo o coniato la prima moneta.
La successiva pietra miliare nella relazione uomo-animale fu la rivoluzione agricola: il processo con cui passammo da nomadi cacciatori-raccoglitori ad agricoltori sedentari. Ciò implicò l’apparizione di una nuova forma di vita sulla Terra: gli animali addomesticati. Inizialmente, questo sviluppo potrebbe sembrare di minor importanza, poiché gli umani riuscirono ad addomesticare meno di 20 specie fra mammiferi ed uccelli, una cifra esigua se comparata alle centinaia di specie che rimasero “selvatiche”. Tuttavia, con il passare dei secoli, questo stile di vita divenne la norma. Oggi, più del 90% di tutti i grandi animali è addomesticato (per “grandi” si intendono tutti gli animali che pesano almeno pochi chili). Consideriamo il pollo, per esempio. Diecimila anni fa era un uccello raro, la cui vita era confinata a piccole nicchie del sud dell’Asia. Oggi, milioni di polli vivono su quasi tutti i continenti e le isole, escluso l’Antartico. Il pollo addomesticato è probabilmente l’uccello più diffuso negli annali del pianeta Terra. Se misuriamo il successo in termini di numeri, polli, vacche e maiali sono gli animali che in assoluto hanno avuto più successo. Ahimè, le specie addomesticate pagano il loro imparagonabile successo biologico con una sofferenza individuale senza precedenti. Il regno degli animali ha conosciuto molti tipi di dolore e di miseria per milioni di anni. Tuttavia, la rivoluzione agricola creò un tipo di sofferenza completamente nuova che peggiora con il trascorrere delle generazioni.
A prima vista, la vita degli animali addomesticati potrebbe sembrare migliore di quella dei loro cugini ed antenati selvatici. I bufali selvatici trascorrono la loro giornata in cerca di cibo, acqua e rifugio e sono costantemente minacciati da leoni, parassiti, inondazioni e siccità. Il bestiame domestico, invece, gode della cura e della protezione degli umani. Gli uomini assicurano a vacche e vitelli cibo, acqua ed un rifugio, curano i loro malanni, li proteggono dai predatori e dai disastri naturali. E molte vacche e vitelli prima o poi si ritrovano in un macello. Ci chiediamo: ciò rende il loro destino peggiore di quello dei bufali selvatici? È meglio essere divorato da un leone o macellato da un uomo? I denti di un coccodrillo sono più gentili di una lama d’acciaio?
Ciò che rende la vita degli animali da allevamento particolarmente crudele non è solo il modo in cui muoiono, ma sopratutto il modo in cui vivono. Due fattori hanno modellato le condizioni di vita degli animali da allevamento: da un lato, gli umani vogliono carne, latte, uova, pelle, la forza muscolare degli animali e il divertimento; dall’altro, essi devono garantire la sopravvivenza a lungo termine e la riproduzione degli animali che allevano. Teoricamente, questo dovrebbe proteggere gli animali dalle crudeltà più estreme. Se un contadino munge la propria vacca senza averle dato cibo ed acqua, la produzione del latte si ridurrà, e la vacca stessa morirà presto. Sfortunatamente, gli esseri umani possono provocare tremende sofferenze agli animali in altri modi, anche se provvedono alla loro sopravvivenza e riproduzione.
La radice del problema è che gli animali addomesticati hanno ereditato dai loro antenati selvatici molti bisogni fisici, emotivi e sociali che sono superflui negli allevamenti. Gli agricoltori ignorano quotidianamente questi bisogni poiché non hanno nessun ritorno economico. Rinchiudono gli animali in piccole gabbie, mutilano le loro corna e le loro code, separano le madri dalla prole e allevano in modo selettivo. Gli animali soffrono moltissimo, eppure continuano a vivere e a moltiplicarsi. Questo non contraddice forse il basilare principio dell’evoluzionismo darwiniano? La teoria dell’evoluzione sostiene che tutti gli istinti e le pulsioni si sono evoluti nell’interesse della sopravvivenza e della riproduzione. Se è così, la continua riproduzione degli animali negli allevamenti non prova forse che tutti i loro bisogni sono soddisfatti? Come può una vacca continuare ad avere un “bisogno” che non è essenziale per la sopravvivenza e la riproduzione?
Al fine di sopravvivere e riprodursi, gli antichi bovini selvatici dovevano comunicare, cooperare e competere efficacemente. È certamente vero che tutti gli istinti e le pulsioni evolvono al fine di soddisfare la pressione evolutiva alla sopravvivenza e alla riproduzione. Comunque, quando queste pressioni esterne scompaiono gli istinti e gli impulsi che sono stati da esse modellati non evaporano all’istante. Anche se non sono più strumenti di sopravvivenza e riproduzione, gli istinti continuano a dar forma alla soggettività dell’animale. I bisogni fisici, emotivi e sociali delle odierne vacche, dei cani e degli umani non rispecchiano la loro situazione attuale ma, piuttosto, le pressioni evolutive che i loro antenati subirono decine di migliaia di anni fa. Perché le persone oggi amano così tanto i dolci? Non certo perché nel ventunesimo secolo dobbiamo ingozzarci di gelato e cioccolato per sopravvivere. Piuttosto, è perché se i nostri antenati dell’età della pietra s’imbattevano in un frutto dolce e maturo, la cosa più sensata che dovevano fare era mangiarne il più possibile ed il più velocemente possibile. Perché i giovani oggi guidano in modo pericoloso, si fanno coinvolgere in risse e violano siti internet confidenziali? Perché stanno obbedendo ad un antico decreto genetico. Settantamila anni fa, un giovane cacciatore, che rischiò la sua vita rincorrendo un mammut, vinse tutti i suoi avversari ed ebbe la mano della bellezza locale – e oggi noi siamo condizionati dai suoi geni “da macho.”
La stessa logica modella la vita delle vacche e dei vitelli nei nostri allevamenti intensivi. Gli antichi bovini selvatici erano animali sociali. Al fine di sopravvivere e riprodursi, avevano bisogno di comunicare, cooperare e competere in modo efficace. Come tutti i mammiferi sociali, i bovini selvatici impararono le abilità sociali necessarie attraverso il gioco. Cuccioli di cane e di gatto, vitellini e bambini: tutti amano giocare perché l’evoluzione ha impiantato in loro questo desiderio. Allo stato selvatico hanno bisogno di giocare. Se non lo fanno, non acquisiranno mai quelle capacità sociali vitali per la sopravvivenza e la riproduzione. Se un gattino o un vitello nascesse con una rara mutazione, tale da renderlo indifferente al gioco, egli avrebbe meno probabilità di sopravvivere e riprodursi, così come non esisterebbero loro stessi se i loro progenitori non avessero acquistato quelle capacità.
Analogamente, l’evoluzione ha impiantato nei cuccioli di mammifero e nei bambini un travolgente desiderio di legarsi alla madre. Una mutazione che indeboliva il legame madre-figlio era una sentenza di morte.
Cosa succede oggi, quando un contadino prende una giovane vitella, la separa dalla madre, la mette in una gabbia stretta, la vaccina, le somministra cibo ed acqua e poi, quando è il momento, la insemina artificialmente con lo sperma del toro? Da una prospettiva oggettiva, questa vitellina non necessita più né del legame parentale né di compagni di gioco per sopravvivere e riprodursi. Tutti i suoi bisogni sono soddisfatti dalla cura del suo padrone umano. Ma da una prospettiva soggettiva, la vitellina ancora sente il forte bisogno di un legame materno e di giocare con gli altri vitelli. Se queste necessità non sono rispettate, la vitellina soffre moltissimo. Questa è la lezione base della psicologia evolutiva: un bisogno formatosi migliaia di generazioni precedenti continua ad essere sentito in modo soggettivo, anche se esso, nella contemporaneità, non è più necessario al fine della sopravvivenza e della riproduzione.
Tragicamente, la rivoluzione agricola diede agli umani il potere di assicurare la sopravvivenza e la riproduzione degli animali da allevamento pur ignorandone i bisogni soggettivi. Ne consegue questo: come specie, gli animali da allevamento sono quelli che hanno avuto il maggior successo biologico nella storia ma, allo stesso tempo se presi individualmente, sono gli animali più infelici mai esistiti sulla Terra. La situazione non ha fatto che peggiorare negli ultimi secoli, durante i quali l’agricoltura tradizionale ha lasciato spazio a quella industriale. Nelle società tradizionali come quelle dell’antico Egitto, dell’Impero Romano o della Cina medievale, gli esseri umani avevano una conoscenza molto parziale della biochimica, della genetica, della zoologia e dell’epidemiologia. Conseguentemente, il loro potere manipolatorio era limitato. Nei villaggi medievali, i polli correvano liberi fra le case, beccavano semi e vermi dai mucchi di rifiuti e costruivano i loro nidi nel fienile. Se un contadino ambizioso avesse cercato di rinchiudere 1.000 polli dentro un pollaio affollato, il risultato sarebbe stato molto probabilmente un’epidemia d’influenza aviaria che avrebbe decimato polli e paesani. Nessun prete, sciamano o strega avrebbero potuto impedirla. Ma una volta che la scienza moderna ha potuto decifrare il segreto degli uccelli, dei virus e degli antibiotici, gli umani hanno iniziato ad assoggettare gli animali a condizioni di vita estreme. Con l’aiuto di vaccinazioni, medicazioni, ormoni, pesticidi, sistema centralizzato d’aria condizionata e mangiatoie automatizzate, è ora possibile stipare decine di migliaia di polli dentro piccoli pollai e produrre carne e uova con un’efficienza che non ha precedenti.
Il destino degli animali allevati in tali condizioni è diventato uno dei temi etici più urgenti del nostro tempo, certamente anche in relazione al numero di membri coinvolti. Oggigiorno, la maggior parte dei grandi animali vivono negli allevamenti industriali. Noi immaginiamo che il nostro pianeta sia popolato da leoni, elefanti, balene e pinguini. Ciò può essere vero sul canale di National Geographic, nei film della Disney e nelle fiabe per bambini, ma non è più la verità del mondo reale. Nel mondo ci sono 40.000 leoni contro quasi 1 miliardo di maiali da allevamento; 500.000 elefanti e 1.5 miliardi di vacche da allevamento; 50 milioni di pinguini e 20 miliardi di polli. Nel 2009, c’erano 1.6 miliardi di uccelli selvatici in Europa, contando tutte le specie. Quello stesso anno, l’industria europea della carne e delle uova allevò 1.9 miliardi di soli polli. Tutti insieme, gli animali da allevamento di tutti il mondo pesano 700m di tonnellate, mentre gli umani pesano 300m tonnellate e meno di 100m tonnellate il gruppo di tutti gli altri grandi animali selvatici.
Questo è il motivo per cui il destino degli animali da allevamento non è una questione etica secondaria. Essa riguarda la maggior parte dei grandi viventi della Terra: decine di miliardi di esseri senzienti, ognuno con un complesso mondo di sensazioni ed emozioni, ma ognuno che vive e muore all’interno di una catena di produzione industriale. Quarant’anni fa, il filosofo morale Peter Singer pubblicò il suo famoso libro Liberazione Animale, testo che ha contribuito molto a cambiare la prospettiva su questi temi. Singer sostiene che l’allevamento industriale ha creato più dolore e sofferenza di tutte le guerre della storia messe insieme.
Lo studio scientifico degli animali ha giocato un triste ruolo in questa tragedia. La comunità scientifica ha utilizzato le crescenti conoscenze sugli animali sopratutto per manipolarne efficacemente la vita al servizio dell’industria. Però, questa stessa conoscenza, ha dimostrato sopra ogni dubbio che gli animali da allevamento sono esseri senzienti, con relazioni sociali intricate e sofisticati schemi psicologici. Essi non saranno intelligenti quanto noi, ma conoscono certamente il dolore, la paura e la solitudine. Anche loro possono soffrire, e anche loro possono essere felici. È giunto il momento di prendere a cuore queste scoperte scientifiche, poiché con il crescere del potere umano, cresce anche la nostra capacità di danneggiare o portare benessere agli altri animali.
Per 4 miliardi di anni, la vita sulla Terra era governata dalla selezione naturale. Ora è sempre più governata dal “disegno intelligente” dell’uomo. Biotecnologia, nanotecnologia e intelligenza artificiale renderanno presto gli umani capaci di rimodellare gli esseri viventi in modi radicalmente nuovi che ridefiniranno il significato della vita. Quando giungeremo a disegnare questo nuovo mondo, dovremo essere capaci di considerare il benessere di tutti gli esseri senzienti, e non solo quello dell’Homo Sapiens.
Traduzione di Marta Frana pubblicata su: https://intellettualeorganico.blogspot.com