di Mia Birdsong – Vorrei parlarvi di povertà. Ma non nei paesi poveri, che è indubbiamente un dramma, ma in quelli ricchi. Poveri tra i ricchi. Un Paese ricco che offre possibilità e che dice di curarsi dei suoi abitanti.
É quasi un ossimoro. Eppure negli Stati Uniti è cosi.
Forse capendone i motivi potremo davvero capire come aiutare il resto del mondo.
Durante gli ultimi 50 anni, le persone più intelligenti, con grandi risorse, hanno cercato di capire come ridurre la povertà negli Stati Uniti. Hanno creato e hanno investito milioni di dollari in organizzazioni non-profit, con la missione di aiutare le persone povere.
Hanno creato gruppi di specialisti che studiano problemi come l’istruzione, la creazione di posti di lavoro. Hanno scritto libri e articoli, hanno denunciato il divario che lascia sempre più persone nella disperazione. E tutti questi sforzi hanno aiutato. Ma non come speravamo. Non è minimamente sufficiente. Il tasso di povertà negli USA non è cambiato più di tanto negli ultimi 50 anni, da quando è iniziata la Guerra alla Povertà. Sono qui per dirvi che abbiamo sottovalutato la risorsa più potente e pratica.
Le persone povere.
C’è una storia che voglio raccontarvi. Jobana, Sintia e Bertha si sono incontrate quando avevano bimbi piccoli, in un corso per genitori a San Francisco. Per loro era difficile la vita. Gli asili erano costosi per loro, i mariti lavoravano, ma sembrava che dovessero lavorare sempre di più.
Così crearono un’impresa di pulizia. Tappezzarono il quartiere di volantini e distribuirono biglietti da visita a famiglie e amici, e presto, ebbero dei clienti. Due di loro pulivano e la terza guardava i bambini. Facevano a turni chi puliva e chi guardava i bambini.
È fantastico, vero? E si dividevano i soldi in tre. Non sarebbero diventate ricche, ma quel poco in più faceva la differenza per la famiglia. Soldi extra per pagare le bollette, per comprare vestiti ai bambini, per andare al cinema e sorridere.
Poi c’è Baakir. Gestisce il BlackStar Books and Coffe. Quando entrate, Bakkir vi saluta con un “Bentornato a casa.” Ma è molto più di un cafè. Per i ragazzi del quartiere, è un posto per un aiuto nei compiti. Per i più grandi, è dove andare per sapere cosa succede nel quartiere e incontrarsi con gli amici. È una casa per poeti, musicisti e artisti. Il quartiere è rinato, e si fanno molte iniziative per la comunità. Chiunque sappia fare qualcosa, può andare al BlackStar e insegnarlo agli altri. Qualsiasi cosa.
É bellissimo.
Queste due brevi storie sono per farvi capire quanto ho imparato in questi 20 anni da persone povere. Jobana, Sintia, Bertha e Baakir sono la regola, non l’eccezione. Io sono l’eccezione.
Sono l’eccezione perché ho potuto studiare, viaggiare e divertirmi. Ho avuto i miei momenti no, ma non sono stati nulla in confronto a quelli che passa la gente povera. Certo quando siamo ragazzi non ce ne rendiamo conto, tutto è cosi importante. Ma i miei momenti no sono passati da sé, il dramma di non sapere come curare i propri figli non passa così facilmente.
Io sono l’eccezione, non perché ho più talento di Baakir o perché mia madre lavorava più sodo di Jobana, Sintia o Bertha. Le comunità emarginate sono piene di persone intelligenti, di talento, che lavorano e innovano, proprio come i nostri dirigenti più rispettati e premiati.
Sono piene di persone che applicano la fisica quantistica per star dentro a un salario minimo, o bilanciare un lavoro e capire come sbarcare il lunario. Sono piene di persone che fanno da sé e per gli altri, danno le medicine per un vicino anziano, prestano soldi a un fratello per pagare la bolletta del telefono, guardano i bambini dei vicini dalla veranda.
Io sono l’eccezione grazie a fortuna e privilegi, non al duro lavoro.
Perché dico questo? Perché mi aspetterei di vedere poveri che non lavorano, invece lavorano tanto, fanno lavori duri. Il duro lavoro è il comune denominatore di questa equazione, e sono stanca della storia che raccontiamo che il duro lavoro porta al successo, perché consente a chi di noi ce la fa di pensare di meritarlo, e di conseguenza, chi non ce la fa, non lo merita.
Dentro di noi esiste una storia, che ci sussurra che ci deve essere qualcosa di sbagliato in queste persone povere. Alcuni dicono che i poveri sono pigri, approfittatori, che imbrogliano e mentono per sfuggire a un onesto giorno di lavoro. Altri preferiscono dire che i poveri sono incapaci e forse avevano genitori incuranti, serve solo insegnargli la strada giusta.
Alcuni poveri imbroglieranno pure, ma sembra che anche ai piani alti ci sia questa abitudine. Queste sono mezze verità, storie a metà che ci hanno convinti che i poveri sono un problema da risolvere.
Ma se invece non fossero le persone da sistemare, ma il nostro approccio?
Se ci rendessimo conto che gli esperti che stiamo cercando, gli esperti da seguire, sono i poveri stessi? Nella Silicon Valley c’è un’intera industria capitalistica che è cresciuta intorno alla convinzione che se la gente ha buone idee e il desiderio di manifestarle, dovremmo darle soldi a palate.
Quindi, considerate questo un invito a ripensare a una strategia fallace. Afferriamo questa opportunità per abbandonare una narrativa stanca e guasta e ascoltare e cercare storie vere, storie più belle e complesse, su chi sono le persone e le famiglie e le comunità emarginate.
Non importa se tutti lo dicono. Tutti possono avere torto, anche tutti insieme.
Tradotto da Patrizia Romeo Tomasini
Revisione di Flaviano Gulli