di Beppe Grillo – La società di oggi ha una caratteristica interessante. Vive sulla progettazione del futuro. Siamo continuamente protesi in avanti. Questo è un bene, ma che futuro ci attende?
Ovviamente nessuno può saperlo. Nel 2030 saremo un miliardo in più di quanti siamo oggi. Arriveremo ad 8 miliardi di persone. Un miliardo in più di teste pensanti, ma anche di bocche da sfamare, posti di lavoro da trovare, un miliardo in più di persone che vorranno consumare. E questo avrà delle conseguenze.
Ognuno di noi consuma atmosfera e produce CO2, tutto questo richiede un ricambio perché l’intero pianeta e la sua atmosfera sono in continuo equilibrio. Per ogni litro di benzina che ognuno di noi brucia, c’è bisogno di circa 40 centimetri quadrati di foresta che recuperi l’ossigeno eliminato.
Oggi l’85% della popolazione vive in paesi che usano più di quanto i propri ecosistemi possano rinnovare. Ed è diverso per ogni paese. Ma c’è un trend globale.
Questo è ciò che William E Rees, a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta ha definito “impronta ecologica”.
L’analisi dell’impronta ecologica (il metodo di calcolo è stato sviluppato come tesi di dottorato di Mathis Wackernagel, sotto la supervisione di Rees) mira al superamento di alcuni problemi relativi alla valutazione della capacità di carico (la Carrying Capacity utilizzata in ecologia) della specie umana, capovolgendo completamente la domanda tradizionale : invece di chiedersi “quante persone può sopportare la Terra?”, il metodo dell’impronta si chiede “quanta terra ciascuna persona richiede per essere supportata?”.
Ognuno di noi ha una sua impronta ecologica. É chiaro che un abitante di Roma, ha impronta ecologica diversa da un abitante di un piccolo paesino, che a sua volte è inferiore ad un abitante di New York e cosi via.
La parte del mondo ricco già oggi ha una impronta ecologica devastante. Consuma l’equivalente di 1,8 pianeti. Quindi consuma di più di quello che può essere ricambiato. Questo vuol dire che da luglio, circa, noi consumiamo risorse che non saranno mai più riprodotte.
Se poi diventassero ricchi anche i paesi poveri, se diventassero ricchi come noi, almeno come in un piccolo paesino d’Italia, avremo un’impronta ecologica tale per cui occorrerebbero otto pianeti. Che ovviamente non ci sono.
Questo ci fa capire dove stiamo andando. Ricordo quando si prendeva in giro Serge Latouche e la sua decrescita felice. (Sicuramente a livello di marketing non ha scelto il miglior nome possibile. Forse era meglio chiamarla Alternativa Felice, ma il concetto non cambia).
Il commercio globale, cosi come lo intendiamo ora, sarà difficilmente sostenibile ancora per molto. Il fatto di mangiare gli ananas fuori stagione a Budapest, produce, dal punto di vista dell’impronta ecologica globale, un danno catastrofico. Il fatto di far spostare aeroplani, camion e navi pieni di merci da un capo all’altro del pianeta, significa di fatto continuare a sfruttare l’ecosistema.
Stiamo continuando a sostenere economie insostenibili. Non possiamo certamente continuare con questa economia estrattiva, non possiamo consumare sempre di più. Forse bisognerebbe cercare di localizzare i processi economici, oppure dobbiamo incominciare a cercarci un’altra terra.
Finora siamo riusciti a spremere il pianeta. Alcune aree del mondo hanno sperimentato il collasso perché sono troppo povere per importare risorse extra rispetto a quelle che riescono a produrre in loco.
Dimezzamento. E’ ciò che serve. Per l’energia, i materiali e il lavoro.
Facciamo dei grandi summit, capi di stato, grandi sale, schermi, palchi in grandi piazze. Tutto molto bello. Ma anche molto ipocrita. Scienziati da tutto il mondo ci portano dati terrificanti ogni anno, e poi li ignoriamo. Non solo non si è cercata una alternativa a questo modello di sviluppo, ma non si è cercato nemmeno una alternativa per mantenere questo modello.
Stiamo devastando il solo grande bene che abbiamo. Sarebbe logico pensare che almeno di fronte alla sopravvivenza del pianeta, potessimo tutti trovare un accordo. Superare le divisioni, le religioni, i partiti, i colori. Sembra non essere così. E poi ci definiamo esseri intelligenti.