Di seguito l’articolo di Roberto Petrini, pubblicato sull’Avvenire.
La caccia ai “divanisti” rischia di creare un mostro. Come è noto l’idea che il Reddito di cittadinanza potesse essere sfruttato da persone abili al lavoro, ma sfaticate, per vivere a scrocco della società è stata ampiamente utilizzata in campagna elettorale ed è stata la spinta ideologica della riforma del Primo Maggio. Ma il pericolo è che per evitare un fenomeno che aveva dimensioni limitate si siano prodotti dei danni e delle ingiustizie, c’è chi dice ai confini della costituzionalità. Con le nuove norme l’universo dell’assistenza ai più deboli si divide sostanzialmente due grandi aree: i “non occupabili, e dunque con diritto al sussidio, e gli “occupabili, cui spetta al massimo un percorso formativo di dodici mesi a 350 euro.
Chi stabilisce se sei occupabile, e dunque sospetto “divanista, oppure no? Nella precedente normativa erano i servizi sociali e i Centri per l’impiego a decidere su un tema complesso che non riguarda soltanto l’attitudine fisica al lavoro ma anche le condizioni di disagio personale e quelle socio-ambientali. Ora ogni dubbio viene accantonato perché i due criteri presi in considerazione sono espliciti: l’età e il nucleo familiare. Infatti per avere il nuovo assegno di inclusione non basterà più un basso reddito Isee ma bisognerà avere anche carichi familiari o troppo giovani di età (sotto i 18 anni) o troppo vecchi (sopra i 60). A parte la disabilità, criterio che prescinde giustamente dall’età, basterà un anno di meno o uno di più di un familiare per passare dalla situazione di “non occupabile” a quella di “occupabile”. Un esempio? Se ho 25 anni e vivo con mio papà di 60 non sono occupabile e prendo il sussidio; invece se ho 25 anni e il mio papà ha 59 anni divento “occupabile” e non ho diritto al sussidio.
La decisione, che discrimina in base alla sola età e dunque potrebbe incappare in profili di costituzionalità, si basa su un criterio meccanico ricorrendo a categorie che di solito vengono utilizzate per identificare la semplice “capacità di cura”. Così la qualifica di “non occupabile” o di “occupabile”, nella smania di stanare il “divanista, viene assegnata indipendentemente dalla storia lavorativa del soggetto, dalle competenze, dalla distanza dal mercato del lavoro. Anzi a pendere sul povero che ha bisogno di ottenere il sussidio c’è anche il criterio che potremmo definire della “memoria” del lavoro, che sarà amministrato dai Centri per l’impiego e dai servizi sociali: se sei in Naspi da meno di sei mesi, niente da fare, sei ready to work. Se sono passati 24 mesi potresti aver dimenticato come si battono i tasti del computer o si avvitano i bulloni e dunque forse puoi aspirare alla “non occupabilità, dunque al sussidio. Se non lavori da tre anni, in base al criterio della “memoria” sei “salvo” e passi tra i “non occupabili. In questo intreccio un po’ crudele che discrimina su età e tempo trascorso dall’ultimo lavoro, si innesta la drammatica situazione del single (magari non per scelta ma proprio perché non hanno sicurezze per mettere su famiglia). In questo caso il criterio ricorda il concetto di “abile e arruolato. Ogni italiano tra i 18e i 59 anni è considerato occupabile, salvo prova contraria. Peraltro le situazioni cambiano: di fronte ad una nuova crisi, o come è avvenuto con la pandemia, la povertà aumenta e a quel punto la rigidità dei criteri potrebbe creare grossi problemi.