Di seguito l’intervista di Rob Savelberg, uscita su taz.de, tradotta da Stefano Porreca
Oggi sono passati quattro anni da quando Suo marito, Julian Assange, è stato arrestato. Di che umore era l’ultima volta che l’ha visto?
Sta lottando per la sua sopravvivenza. Da quattro anni si trova nel penitenziario di massima sicurezza di Belmarsh. Senza aver riportato condanne. Nel Regno Unito non è stato neppure incriminato. È in regime di detenzione amministrativa in attesa di essere estradato, come richiesto dagli Stati Uniti. Senza limiti di tempo.
Al momento con quale frequenza può fargli visita a Londra?
Da una a due volte alla settimana. È il carcere più duro della Gran Bretagna. Ci sono vari livelli. Ma in questo carcere mancano denaro, personale e attrezzature. È più semplice trattare tutti come criminali pericolosi. Sulla carta Julian ha determinati diritti. Per esempio, a ricevere visite tutti i giorni. E a poter lavorare durante la custodia cautelare. Ma, in realtà, è trattato come un condannato. Ha le restrizioni di un criminale efferato.
Che idea possiamo farci del suo quotidiano all’interno del carcere, quant’è grande per esempio la sua cella?
È di tre metri per due. Deve restarci almeno 20 ore al giorno. I visitatori possono trattenersi per 75 minuti. Ai detenuti è consentito di uscire all’aperto al massimo un’ora. Oltre a ciò, deve andare a prendersi il pasto e consumarlo da solo all’interno della cella. Ogni due o tre giorni gli è consentito di farsi la doccia. C’è una sala tv comune, e riceve libri. Può fare telefonate tutti i giorni. C’è un computer, ma senza internet e programma di scrittura. Una specie di lettore pdf. Una volta in quattro anni gli è stato consentito di recarsi in palestra. E una volta di giocare a calcio, il giorno in cui è venuto in visita il ministro.
Un anno fa ha sposato Assange in carcere. Insieme avete due bambini. Come prendono il fatto che loro padre resti in prigione per così tanto tempo?
È difficile. Adesso hanno quattro e cinque anni. Ma lo rendiamo loro il più positivo e divertente possibile. Sono grandi abbastanza per sviluppare ricordi. E non sappiamo per quanto potremo restare assieme. Nel giro di poche settimane, infatti, Julian potrebbe essere espulso.
Dopodiché dovrebbe incontrarlo negli Stati Uniti
Negli Usa vivrà in condizione di isolamento estremo. Lo vedremmo solo una volta al mese.
In cosa divergono le prigioni degli Stati Uniti da quelle del Regno Unito?
Ogni giorno 80mila persone sono in regime di totale isolamento. Accade di frequente, e per l’Onu si tratta di tortura. Le condizioni sono pessime. Secondo alcune informazioni mediche emerse durante l’udienza sull’estradizione, Julian negli Stati Uniti andrà incontro alla morte.
In che modo?
Lo spingerà al suicidio. In Gran Bretagna può ricevere me e i suoi figli e difendersi contro l’estradizione. Qui non è dannato a un terribile inferno.
Suo marito da quattro anni è trattenuto in prigione in Gran Bretagna, prima ha vissuto a lungo da rifugiato politico dentro l’ambasciata dell’Ecuador senza poter mettere piede all’esterno. Perché seguita a essere detenuto?
Julian è un prigioniero politico. E resterà in carcere finché diversi Paesi continueranno a farla franca. Io e i miei familiari parliamo con la stampa e lo troviamo inaccettabile. Nessun Paese democratico o libero mette una persona in carcere per le sue idee o per aver pubblicato la verità.
Ha riferito di crimini di guerra compiuti in Iraq, in Afghanistan e nella baia di Guantanamo. Perché per gli Stati Uniti e la Gran Bretagna è una spina nel fianco?
Perché ha rivelato le loro malefatte. E a quel punto si ricorre a un noto stratagemma: sviare dai propri crimini e far ricadere la colpa sul messaggero. È evidente che gli Stati Uniti debbano perseguire penalmente coloro che lavoravano per l’esercito americano e da un elicottero ammazzarono i due inviati della Reuters e gli altri dieci civili. Si sono potuti osservare questi crimini in una serie di filmati ripresi sopra una strada di Baghdad. L’unica persona che è finita in carcere in seguito alla divulgazione dei crimini di guerra statunitensi contro migliaia di civili iracheni, è stata Julian Assange.
Recentemente importanti quotidiani di tutto il mondo hanno pubblicamente espresso preoccupazione per Julian Assange. Negli ultimi tempi il sostegno nei confronti di Suo marito è mutato?
C’è una bella differenza. C’è grande sostegno da parte di organizzazioni umanitarie come Amnesty International, Human Rights Watch e Reporter senza frontiere. Del consiglio d’Europa, dell’alto commissario delle Nazioni Unite. E di capi di Stato, come quelli del Messico e del Brasile. Il premier australiano ritiene che la detenzione di Julian si sia ormai protratta per troppo tempo. «Ora basta», ha dichiarato. Il primo ministro non riesce a comprenderne la ragione. Julian va rimesso in libertà.
Crede che la libertà di stampa sia a rischio?
La libertà di stampa è sempre in pericolo. I giornali solo poco a poco hanno capito di cosa fosse realmente accusato Julian. E l’amministrazione Trump ha dato nuova linfa all’Espionage Act. Che ora vale per la ricezione, il possesso e la diffusione di informazioni classificate. Adesso sono considerati crimini.
La legge risale al 1917
Sì, e fu deliberatamente formulata in modo vago. Il governo, di fatto, non l’aveva mai usata contro la stampa. Finché il presidente Obama non ne fece un ricorso aggressivo contro le fonti dei giornalisti, contro whistleblower come Chelsea Manning ed Edward Snowden. Ma non contro Julian Assange e Wikileaks. Perfino durante la guerra fredda, quando trapelarono una serie di informazioni riservate sulla sicurezza nazionale, la legge non fu applicata. In questo modo, invece, Trump voleva attaccare la stampa.
Il punto è la differenza tra whistleblower ed editori
Sì. Parte della confusione e della mancanza di chiarezza è dovuta al fatto che Wikileaks e Julian Assange sono stati visti come whistleblower. Non è un informatore, un insider, ma un editore. Gli sono pervenute informazioni da parte di whistleblower. Il fulcro del lavoro giornalistico è pubblicare informazioni qualora siano rilevanti. È stata la pigrizia concettuale con cui si è reputato Julian un whistleblower, le sue attività indistinguibili da quelle di altri media a far sì che il suo caso venisse frainteso.
Che intende?
Si è creduto che Julian fosse incolpato di essere un informatore. Ma non è così. È stato accusato in qualità di editore. È per questa ragione che Le Monde, il Guardian e il New York Times poco tempo fa hanno pubblicato un comunicato congiunto. In esso spiegano che il procedimento contro Wikileaks è un procedimento contro la stampa e l’attività giornalistica. Comunicare con i whistleblower, per il governo Usa, è cospirazione.
Quali sono i prossimi passi?
Stiamo attendendo in Gran Bretagna che l’High Court conceda l’appello. Dopodiché ci sono la corte suprema e la corte europea dei Diritti dell’uomo. Ma dopo la Brexit non è chiaro se la Gran Bretagna accetterà ancora questa corte. Nel continente europeo le conoscenze giuridiche sono più approfondite.
Per salvare Suo marito, le occorrono alleati politici. Qual è il Suo piano?
Credo sia semplice trovare alleati. Perché Julian è il simbolo dei presupposti democratici. Della libera stampa che denuncia il malcostume, osserva i governi quando commettono crimini e mostra le prove delle vittime. Ha subìto abusi e torture. Quel che ha fatto, è stata espressione di democrazia e della libertà di stampa nella sua forma più pura. La reazione scatenatasi contro di lui è l’opposto. Non si tratta di poterci riunire con lui e dopodiché torna tutto alla normalità. No, il caso di Julian costituisce un precedente. Tutti devono occuparsene. È un nuovo paradigma: chiunque riveli la verità, può essere sbattuto in galera. Chiunque divulghi informazioni che mostrano che lo Stato abusa del suo potere.
L’ex capo della Cia Mike Pompeo vede Wikileaks come un nemico pubblico
Nella Cia, nel National Security Council e nel governo al momento non viene più preso in seria considerazione. Pompeo, a quanto pare, avrebbe pianificato di rapire Assange e di assassinarlo. Ma non è accaduto perché c’erano delle forze contrarie, incluso nell’amministrazione Trump. Le quali sostenevano si trattasse di una mossa squilibrata. In tutti i governi Usa è stata un’idea molto controversa e impopolare.
Su questo caso il governo Biden deve prendere posizione?
Sì, è così. Questo caso, di fatto, rappresenta un importante cambiamento negli Stati Uniti. C’è stato consenso sulla libertà di stampa. Ma ora ci sono dei precedenti e non vanno dimenticati: gli Usa sono una superpotenza. Avevano importanti meccanismi di protezione delle libertà di stampa e di parola. Questo caso apre una grande falla nel primo emendamento della Costituzione. Il governo Biden deve decidere se seguire la linea Trump e minare la libertà di stampa oppure quella Obama e non imbavagliare la stampa. Ora però si avvicinano le elezioni e le cose non si mettono bene per i democratici. Questo caso viene usato sempre come mezzo di pressione. La sua esistenza pende sulla stampa come una spada di Damocle.
Quali ne sono gli effetti?
Già ora, quando c’è del materiale sensibile trasmesso da whistleblower, gli avvocati dicono ai media: «Questo non potete pubblicarlo. Occupatevi solo del caso Assange». Rischiano il carcere o costose controversie. Questo è il nuovo contesto giornalistico in cui viviamo.
Accade già o è solo una minaccia?
L’esistenza delle recenti norme, che prevedono un’azione penale per la pubblicazione, è una minaccia. Ogni editore deve fare un’analisi dei rischi per capire se ne valga la pena. È questo a determinare le decisioni nelle redazioni.