di Fabio Massimo Parenti e Maria Morigi – Come noto, la storia che ha portato alla fondazione della Repubblica popolare, con molti elementi di continuità risalenti alla Cina imperiale, è incardinata su due condizioni, due princìpi generali, che ispirano la tradizione politica cinese: unità e stabilità, la cui importanza permea l’intera storia cinese insieme al valore confuciano di “Armonia” continuamente ribadito dal Presidente Xi Jinping.
Persa nel 1842 alla fine della prima guerra dell’oppio, nel 2017 la Cina ha celebrato il ventesimo anniversario del ritorno di Hong Kong alla Repubblica popolare cinese. Hong Kong è stata restituita a seguito di anni di trattative tra la Cina e il Regno Unito, mantenendo un alto grado di autonomia, politica, economica e monetaria. La politica estera, i rapporti diplomatici e le politiche di difesa sono invece in capo al governo centrale di Beijing. Secondo la formula “un paese, due sistemi”, Hong Kong sta godendo di una sempre maggiore integrazione de facto alla madrepatria. Si tratta di vantaggi e benefici derivanti da accordi consolidatisi soprattutto nel 2003 con il Closer Economic Partnership Arrangement (CEPA). Alla fine del 2015, Hong Kong è diventata il primo partner commerciale della Repubblica popolare, che a sua volta può contare sul suo ruolo di centro finanziario globale, sia per l’implementazione degli investimenti della Belt and Road Initiative, sia per l’internazionalizzazione dello yuan RMB, che va avanti a ritmi altalenanti da alcuni anni, sia infine per le emissioni sempre più cospicue di bond cinesi.
Ricorrenti in questo ventennio i movimenti di protesta culminati nella “rivoluzione degli ombrelli” del 2014: esempio di rivoluzione colorata finalizzata alla richiesta di riforma elettorale e sostenuta finanziariamente da ONG e patronati occidentali -“Occupy central with love and peace” fondato dai professori universitari Benny Tai e Chan Kin-man e dal reverendo cristiano Chu Yiu-ming, e “Occupy Central Hong Kong”. La protesta è nata formalmente per denunciare in quei giorni l’ingiustificata detenzione di 14 studenti, arrestati durante un sit-in a cui avevano partecipato 26 studenti. La polizia riferì che si trattava di sostenitori di posizioni separatiste contro la Repubblica popolare, in violazione dunque delle leggi fondamentali di Hong Kong. Gli studenti sono stati poi rilasciati dopo due giorni.
Per il ventennale del ritorno di Hong Kong alla Cina, Xi Jinping ha compiuto il primo viaggio nella regione in veste di presidente della RPC, durante il quale sono stati programmati, oltre alle celebrazioni ufficiali, incontri con le massime autorità del paese ed ispezioni presso i presidi militari. Xi ha esteso i suoi migliori saluti, ribadendo la ferma volontà di sostenere la regione e progettarne insieme il futuro. Tuttavia, come accade in ogni visita di alto livello, c’è sempre chi coglie l’occasione per manifestare il proprio dissenso. Un centinaio di persone (400 per gli organizzatori) si sono riunite per una veglia nel centro della città per chiedere che il premio Nobel Liu Xiaobo, che è deceduto dopo poche settimane, ricevesse le migliori cure per il suo tumore terminale. E ciò anche se Liu sia stato costantemente monitorato e seguito da equipe specializzate in un ospedale di Shenyang. Ma chi è Liu? Lo ricordiamo: è un fan dell’Occidente e ha più volte sostenuto la “bontà” della colonizzazione della Cina, augurando al proprio paese un più lungo periodo di umiliazione. Nel corso di un’intervista di qualche anno fa, il professor Domenico Losurdo si esprimeva al riguardo con queste parole: “È ora di demitizzare una volta per sempre le ONG e i ‘dissidenti’ vari. Voglio qui limitarmi a un esempio. Autorevoli e insospettabili storici occidentali definiscono il periodo degli anni 1850-1950 (in pratica dalle guerre dell’oppio alla fondazione della Repubblica popolare) come il periodo della ‘Cina crocifissa’. Per dirla con Jacques Gernet, ‘senza dubbio il numero delle vittime nella storia del mondo non è stato mai tanto elevato’. Ebbene, ecco il ‘dissidente’ Liu Xiaobo propagandare la tesi secondo cui la tragedia della Cina è di non aver conosciuto un periodo di dominio coloniale sufficientemente lungo (ed eccolo invocare indirettamente una più forte pressione occidentale sul governo di Beijing). In Occidente nessuno grida allo scandalo per la galera inflitta a quanti mettono in dubbio questo o quel particolare dell’olocausto ebraico, ma ci si strappa le vesti per la galera inflitta a chi vorrebbe prolungare il periodo della ‘Cina crocifissa’. Pur essendo un campione del colonialismo (e dunque delle guerre coloniali), Liu Xiaobo ha conseguito il Premio Nobel per la Pace!”.
A completare questo quadretto delle proteste anticinesi ad Hong Kong si è aggiunta la voce di un ben noto “attivista”, Joshua Wong, già conosciuto da anni per essere stato uno dei leader (a 17 anni) del movimento Occupy Central Hong Kong del 2014. Due cose sono grottesche in tutto ciò. Oltre all’irrilevanza del numero di partecipanti, il sostegno a Liu Xiaobo è immotivato per le ragioni che abbiamo accennato, mentre il giovane oppositore studentesco è noto anche per aver condiviso le passate proteste a fianco di uomini d’affari, accademici e altre personalità che hanno studiato e vissuto a lungo negli Usa e sono direttamente legate a specifiche Ong, a loro volta legate al National Endowment for Democracy. Quest’ultima organizzazione è una delle principali finanziatrici di molte esperienze di “rivoluzioni colorate”, orchestrate almeno sin dal 2000 per destabilizzare aree sensibili e strategiche contro i competitor geopolitici degli Usa. Il supporto statunitense e i fondi a Occupy Central Hong Kong sono candidamente dichiarati dalle organizzazioni che sono dietro i vari “attivisti”.
La manifestazione più recenti di questi giorni si aggiunge a quella del 9 giugno, motivata dalle contestazioni di una proposta di legge per l’estradizione di “sospetti” in Cina presentata il 10 giugno. La legge contestata permette di estradare in Cina coloro che sono accusati di un crimine con pena superiore ai sette anni di detenzione, sottoponendoli al processo di tribunali nazionali. Si prevede che il via libera alla consegna alle autorità cinesi sia di responsabilità unica del capo esecutivo, dopo una prima lettura dei tribunali e senza intervento da parte dei 70 membri del parlamento monocamerale. La nuova legge dovrebbe essere applicata anche alle richieste di estradizione da parte di Taiwan e Macao. Il capo del governo Carrie Lam ne sostiene la legittimità per evitare che Hong Kong diventi un “rifugio per criminali” e motiva la proposta portando il caso di una donna di Hong Kong uccisa a Taiwan: le indagini sul fidanzato della vittima non sono sfociate in un regolare processo poiché il presunto colpevole, tornato a Hong Kong, non ha potuto essere estradato proprio per l’assenza di regole sull’estradizione. I critici manifestanti, ben sostenuti dalle ONG cui i nostri media danno assoluta fiducia, denunciano ancora una volta le ingerenze di Pechino e la violazione dello statuto speciale del “one country, two sytems” relativamente all’indipendenza giudiziaria. Al momento sembra che Pechino voglia disinnescare la protesta e l’approvazione della contestata legge sull’estradizione è stata sospesa.