di Saverio Pipitone – In dollari ammonta intorno a 300.000 miliardi il patrimonio totale mondiale di ricchi e abbienti, che annovera denaro, immobili, beni mobili, oggetti preziosi, investimenti, dividendi, rendite e similari.
È posseduto per il 3% da 2.000 straricchi (da 1 a 180 miliardi), per il 50% da 47 milioni di individui (da 1 a sopra 500 milioni) e per il restante 47% da 500 milioni di persone (da 100.000 a 1 milione), prevalentemente europei, nordamericani ed asiatici, con una ricchezza che in genere cresce di anno in anno, fino a 50.000 miliardi.
Poi ci sono le multinazionali, circa 80.000, con profitti complessivi annuali di quasi 10.000 miliardi, di cui il 30% realizzati dalle 2.000 maggiori corporation quotate e tra le redditizie spiccano Industrial & Commercial Bank China, Apple, Alphabet, Microsoft, Amazon, Intel, Oracle, Toyota, ExxonMobil, Samsung, Citigroup, Walmart, Volkswagen, Johnson&Johnson, Gazprom, Walt Disney, Facebook, Nestlé, Pfizer, Goldman Sachs, Santander, Sony, Procter&Gamble, Coca-Cola.
Facendo due conti sui menzionati averi e guadagni (300.000/50.000/10.000) – elaborati dai dati Credit Suisse e Forbes Global 2000 – è risultato che un 8% di ciascuno di essi genera nell’insieme all’incirca 30.000 miliardi di “plusvalore” che i danarosi signori, in modo progressivo, dovrebbero volutamente offrire, o meglio restituire, anche in cambio di eventuali sgravi fiscali, per innescare un flusso globale di attribuzione alla popolazione adulta, pari a 5 miliardi, di una quota mensile di 500 dollari, da considerare però come media che aumenta o diminuisce in funzione del costo della vita di ogni singolo Paese e da cumulare ai proventi di lavoro, pensione o sussidi. Consumati o risparmiati, questi soldi ricircoleranno nel sistema economico con un effetto moltiplicatore sulla produttività industriale e finanziaria, ricaricando il capitale e creandosi degli aggiuntivi mezzi monetari per reggere in continuità annua il meccanismo distributivo.
Ad esempio in Italia, sempre in dollari, per dotare i 48-50 milioni di adulti residenti con 10.000 all’anno, occorrono 500 miliardi, ovvero il 5% di 10.000 miliardi posseduti da 1,5 milioni di agiati con risorse superiori ad 1 milione e da una facoltosa élite dal range di 1-25 miliardi con una trentina di personaggi fra cui in ordine sparso Giovanni Ferrero e Luigi Cremonini delle omonime industrie alimentari, Giorgio Armani, Miuccia Prada, Renzo Rosso, Remo Ruffini, i Benetton, Domenico Dolce e Stefano Gabbana delle rispettive case di moda, Luca Garavoglia di Campari e Silvio Berlusconi di Mediaset, due aziende italiane, ma “giusto per ricordalo” con sede legale in Olanda.
Il reddito di base, per taluni miliardari, è una grande idea. Tra quelli che l’appoggiano spuntano l’informatico creatore di browser Marc Andreessen, l’editore open source Tim O’Reilly, l’imprenditore Gotz Werner delle drogherie DM, il finanziere di private equity Charles Sirois, il fabbricante di cioccolato Josef Zotter, il manager di comunicazione strategica Peter De Keyzer. Jack Dorsey di Twitter è invece passato ai fatti, dando negli ultimi mesi oltre 1 miliardo a progetti di redistribuzione. Concorda persino l’oracolo speculatore Warren Buffett, che qualche anno fa al magazine PBS – nel rammentare l’anomala riallocazione della ricchezza dal 1982 al 2015 con una crescita del 2.300% per i ricchi e di appena l’1% per i salariati – asserì che sarebbe felice pure avendo molti meno soldi e avanzò l’intento di donare dopo la morte il patrimonio (72 miliardi).
Un reddito garantito è fonte di libertà, equità e benessere. È stato dimostrato, già tempo addietro, dal MINCOME, acronimo di Manitoba Basic Annual Income Experiment, attuato nella piccola comunità rurale di Dauphin in Canada con stanziamenti pubblici. Era il 1975 quando gli abitanti lo ricevettero con un test pilota monitorato da economisti, sociologi ed antropologi per verificare gli effetti sulle abitudini lavorative, vita familiare e relazioni individuali, ma nel 1979 venne interrotto senza alcuna pubblicazione di un report finale.
Trent’anni dopo, l’economista Evelyn Forget analizzò quei risultati tra grafici, tabelle, resoconti e trascrizioni, contenuti in 1.800 scatoloni impolverati nell’Archivio di Stato, giungendo alla conclusione che l’esperimento fu un successo. Tempi e ritmi di lavoro rimasero pressoché invariati, ad eccezione di un lieve calo del 13% dovuto alla decisione delle mamme di restare a casa con i figli piccoli e dei sedicenni che, anziché andare nei campi o in fabbrica, proseguirono gli studi, impennando il tasso dei diplomati. Molti ebbero la possibilità di scegliere un mestiere o mettersi in proprio con le banche più propense nel concedere prestiti data la garanzia dell’entrata mensile.
Tutti avevano sicuramente meno preoccupazioni finanziarie. Uno dei beneficiari disse all’epoca: «Mi piace il Mincome perché uno viene lasciato in pace, non è mai importunato e non si sente come se dovesse strisciare per ricevere un dollaro onnipotente». Diminuirono inoltre dell’8,5% le visite ospedaliere per incidenti lavorativi e stradali, violenze domestiche, patologie mentali (link studio).
Oggi, un reddito universale e incondizionato è impellente per accedere nell’età del Novacene, termine coniato dall’inventore dell’ipotesi Gaia e centenario scienziato James Lovelock, per indicare la benevola convivenza di umani e cyborg con il progetto comune di un pianeta superintelligente capace di autosostenersi, ed appunto solo l’Intelligenza Artificiale, indipendente e svincolata dall’antropica corruzione, è in grado di congegnare una sistematica e permanente redistribuzione della ricchezza nel principio della sharing community.
L’AUTORE
Saverio Pipitone – Giornalista pubblicista e redattore economico-finanziario. Autore di articoli di varie tematiche, dalla critica economico sociale alla storia, dall’ecologia al consumismo. Oltre a Pesticidi a tavola, ha scritto i libri Shock Shopping La malattia che ci consuma (Arianna Editrice) e Forno a Microonde? No Grazie (Macro Edizioni). Blog: saveriopipitone.blogspot.com