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Disoccupazione digitale: ai robot il posto fisso?

beppegrillo.it - Giugno 19, 2020

di Niccolò Morelli – La nostra percezione della realtà è fortemente condizionata da ciò che ci circonda e dal contesto in cui siamo inseriti. I vicini di casa, gli amici al bar, le notizie alla tv o la lettura veloce di un quotidiano hanno un impatto quasi totale sul nostro modo di percepire il mondo intorno a noi e le sue problematiche.

Sono in pochissimi a prendersi la briga di consultare le lunghissime e noiosissime tabelle dell’OECD; e come se non bastasse i quotidiani che trattano di business, nelle loro rubriche dedicate, adottano un linguaggio tecnico finanziario che inevitabilmente finisce per scoraggiare la lettura a chiunque non si occupi quotidianamente di economia. Di conseguenza, la stragrande maggioranza delle persone non ha un’idea chiara di ciò che sta realmente succedendo.

Dando una rapida occhiata ai dati sui posti di lavoro, e come essi stiano cambiando ed evolvendo, sia in Europa che negli Stati Uniti, dovremmo quantomeno farci qualche domanda in più.

Quello che emerge è che i nuovi posti di lavoro creati dalla tecnologia negli ultimi anni, impiegano una frazione molto piccola di persone; e nonostante questo anch’essi tendono a scomparire poco dopo essere stati creati.

I robot, le intelligenze artificiali, le stampanti 3D e molte altre tecnologie ormai saldamente consolidate stanno letteralmente spazzando via un’intera classe di lavoratori a bassa specializzazione che si ritroveranno senza un lavoro da un giorno all’altro.

Mentre le aziende più “anziane” si portano necessariamente dietro un peso superfluo del quale non possono fare a meno, come ad esempio i dipendenti storici di vecchia data, le imprese di nuova costituzione non hanno questo problema, sono dinamiche e possono assumere i migliori fin da subito. Queste aziende implementano tutte le possibili strategie e nuove tecnologie per aumentare la produttività, e cioè il fatturato per dipendente.

Elenco maggiori aziende multi-miliardarie e il fatturato per dipendente. (Wikipedia)

McDonald’s è stata fondata nel 1940, può dunque essere considerata un’azienda anziana, e il fatturato per dipendente è di 50.000 dollari. Man mano che ci avviciniamo a tempi moderni si nota una progressiva diminuzione del numero di lavoratori occupati e un aumento della quantità di ricchezza che ogni dipendete crea (unica eccezione è Walmart; anche se negli ultimi anni anch’essa sta cedendo il passo all’automazione).

A conferma di questa tendenza basti ripercorrere la storia di Facebook dagli esordi e di come si è via via allargata inglobando altre realtà che ne hanno determinato una crescita vertiginosa in termini di utili. Nato nel 2004, in meno di un decennio (cioè agli inizi del 2010) Facebook aveva un fatturato che si aggirava intorno al miliardo e mezzo per un numero di dipendenti che non superava le 3.000 unità. Nell’aprile del 2012, però, l’azienda di Zuckemberg acquistò la startup di condivisione di fotografie Instagram pagandola 1 miliardo di dollari; allora l’azienda aveva 13 dipendenti. Si tratta all’incirca di 77 milioni di dollari per lavoratore, ma non è tutto.

Facendo un salto in avanti di due anni, fino al febbraio 2015, Facebook con un’altra mossa strategico-imprenditoriale ha acquistato l’azienda di messaggistica WathsApp per 19 miliardi di dollari. L’organico di WhatsApp comprendeva poco meno di 55 persone; pertanto la valutazione ha raggiunto la sbalorditiva cifra di 345 milioni di dollari per dipendente.

L’osservazione dei dati riguardanti il fatturato per dipendente rende molto chiaro che i progressi tecnologici dell’informazione e della comunicazione permettano di far leva sugli sforzi di un organico molto ridotto con un ritorno sugli investimenti e un fatturato enormi.

La domanda che sorge spontanea alla luce di questi dati è la seguente: se le aziende più recenti necessitano soltanto di personale altamente qualificato e dinamico e quelle più vecchie stanno gradualmente sostituendo i lavoratori umani in favore dell’automazione, quale sarà il destino di coloro che non hanno alcuna istruzione formale e nemmeno i mezzi (o il tempo) per acquisire competenze sofisticate?

Ci sono milioni di lavoratori con un diploma di scuola superiore al massimo, con più di 30 anni di attività che svolgono lavori manuali o facilmente automatizzabili. Ogni nuovo lavoro che verrà creato impiegherà, se siamo fortunati, solo una frazione di quelle persone. Questi posti di lavoro richiederanno una mente molto ricettiva e flessibile, predisposta e allenata all’apprendimento oltre che una profonda conoscenza di materie altamente sofisticate. Se per educare una giovane mente a questi campi ci vogliono generalmente in media dai cinque ai dieci anni, viene da chiedersi quanti dei milioni di disoccupati di mezza età saranno disposti a reinventarsi e ricominciare da capo? Ma soprattutto a quale prezzo?

L’idea che la società possa mantenere lo stesso numero di posti di lavoro, data l’espansione esponenziale della tecnologia e l’ascesa dell’automazione è irrealistico.

Non dobbiamo farci spaventare, molti studiosi dell’argomento sostengono che una via d’uscita è possibile, ma occorre ripensare l’intera struttura economica e sociale in cui viviamo e con essa anche alle nostre vite, alle nostre priorità e al nostro scopo.

Il futuro del lavoro e dell’innovazione porta alla luce nuovi ed esaltanti settori che stanno emergendo ogni giorno, dalla stampa in 3D all’ingegneria molecolare, dalla robotica all’intelligenza artificiale e ai processi sorprendenti del machine learning con meraviglie tecnologiche come Watson, fino ad arrivare alla auto a guida totalmente autonoma. Queste nuove frontiere in rapida ascesa solo soltanto l’inizio di una nuova e sorprendente era che, c’è chi sostiene, porterà alla più grande trasformazione di tutti i tempi.

 

L’AUTORE

Niccolò Morelli, classe 1993, nasce ad Empoli ma vive tra le colline toscane di Vinci, il paese che dette i natali al genio di Leonardo. Nel 2018 si laurea in Scienze Politiche all’Università di Firenze e due anni dopo consegue il diploma di Master in Scienze del lavoro, frequentato per metà all’Université catholique de Louvain in Belgio, con una tesi dal titolo “Digitalizzazione e robotizzazione: verso un futuro senza lavoro?”.

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