Traduzione dell’articolo di Andrew White, docente al King’s College London e autore di Inequality in the Digital Economy (2024), in cui spiega perché l’avanzata dell’intelligenza artificiale rende sempre più urgente l’introduzione di un reddito di base universale.
Alcuni dei più convinti sostenitori di un reddito di base universale (UBI) sono i leader dell’intelligenza artificiale le cui innovazioni minacciano di eliminare milioni di posti di lavoro.
Un esempio emblematico è il coinvolgimento di Sam Altman di OpenAI in OpenResearch, il gruppo che ha progettato uno studio condotto tra il 2020 e il 2023 che ha assegnato un pagamento incondizionato di 1000 dollari al mese a 3000 cittadini del Texas e dell’Illinois. Si può essere cinici sulle motivazioni della Silicon Valley, ma su questo tema essa è d’accordo con alcuni dei suoi critici più accesi riguardo i profondi cambiamenti che l’intelligenza artificiale porterà nel mondo del lavoro. Come ho spiegato nel mio libro sull’UBI pubblicato lo scorso anno, questa posizione riflette timori di lunga data sull’impatto dell’economia digitale più ampia sulle condizioni lavorative del ventunesimo secolo. L’avvento delle reti digitali globali negli anni ’90 ha permesso una rapida espansione delle attività economiche da mercati locali a mercati globali. I commentatori dell’Internet nascente celebravano le opportunità offerte a piccole aziende innovative.
In realtà, i principali beneficiari sono state le grandi corporation. Alcune erano startup Internet, simbolo di questa economia che si pretendeva più equa, ma le più riuscite (Alibaba, Tencent, Baidu, Google, Apple e Meta) hanno sviluppato poteri monopolistici persino superiori a quelli delle grandi aziende dell’era pre-Internet. Queste società impiegano relativamente poche persone rispetto ai loro ricavi. Dato l’ampio ventaglio di settori economici in cui operano, il modello della Silicon Valley — poche persone che generano enormi profitti — si è esteso al resto dell’economia. Questo cambiamento spiega in gran parte perché, nel periodo 2000-2015, metà dell’aumento totale della ricchezza globale sia finita nelle mani dell’1% più ricco.
Parallelamente all’allontanamento dell’1% globale dal resto della popolazione, si è verificata una significativa riduzione della forza lavoro mondiale tra il 1991 e il 2024. Nel primo anno, circa il 62% delle persone in età lavorativa era occupato; nel 2024 la quota è scesa al 58%. Queste due tendenze globali sono importanti perché le nuove tecnologie tendono di solito a sovrapporsi alle strutture economiche esistenti anziché sovvertirle. In questo senso, la crescita esponenziale delle forme avanzate di IA generativa avviene in un periodo in cui la disuguaglianza — almeno per quanto riguarda l’1% globale — sta aumentando in modo marcato e i livelli occupazionali stanno diminuendo. Un recente rapporto del pioniere statunitense dell’IA Anthropic ha sottolineato che “i modelli di utilizzo attuali suggeriscono che i benefici dell’IA potrebbero concentrarsi nelle regioni già ricche, aumentando potenzialmente le disuguaglianze economiche globali”.
Nel breve periodo, i più colpiti saranno i lavori iniziali, le mansioni basilari e meno specializzate che spesso rappresentano il primo impiego per i giovani, e che risultano particolarmente esposte all’automazione tramite IA. Questo crea un problema serio, perché riduce la possibilità per molti ragazzi di ottenere quella prima esperienza lavorativa che permette di entrare davvero nel mercato del lavoro.
Sarebbe però un errore pensare che l’IA generativa inciderà solo sui lavori di primo livello. L’IA ha già avuto un impatto considerevole sulle industrie creative, un settore che figura in primo piano nella nostra didattica e ricerca al CMCI (Culture, Media & Creative Industries, King’s College London).
La musica popolare è spesso stata in prima linea nell’innovazione tecnologica dell’industria creativa, dagli sviluppi del campionamento e della tecnologia MIDI negli anni ’80 fino alla monetizzazione dello streaming nel ventunesimo secolo. Ma il modello di business delle moderne piattaforme musicali è estremamente vulnerabile alla musica generata da IA. Questo perché gli artisti presenti sulle piattaforme vengono pagati in proporzione alla quota dei loro ascolti sul totale degli stream. I brani generati dall’IA non solo generano ricavi per chi li produce, ma aumentano anche il numero complessivo di stream, riducendo così la quota di guadagni destinata agli artisti reali. La recente notizia che Spotify ha rimosso 75 milioni di tracce di questo tipo lo scorso anno mostra la portata del problema.
Tutto questo spiega perché un numero crescente di esperti sostiene l’introduzione di un UBI per coloro che potrebbero perdere il lavoro o vedere ridursi la retribuzione in un’economia sempre più modellata dall’IA generativa. Tuttavia, qualsiasi intervento politico di questo tipo dovrebbe anche affrontare i temi della proprietà, della regolamentazione e dei modelli di business delle aziende tecnologiche che dominano questo settore.





