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Controcanto – Intervista a Marco Revelli

beppegrillo.it - Aprile 22, 2010
Intervista a Marco Revelli – Controcanto
(16:00)


Quando è successo? Da quando siamo diventati personaggi di un racconto la cui trama è scritta da altri e da noi solo recitata? Un passo alla volta, un piccolo furto della nostra identità quotidiana, una deviazione minima del significato delle parole che usiamo. Così siamo cambiati. E ora, solo ora, che il temporale sta per addensarsi sopra alle nostre teste, iniziamo a capirlo. Marco Revelli ci racconta una storia, la nostra, anche se sembra un racconto di persone lontane, a noi sconosciute. Parla di schiavi e siamo noi. Di regole, leggi, istituzioni scomparse. Ed erano le nostre. Di un deserto sociale, di un linguaggio di plastica. Ed è l’Italia, e sono le nostre parole.

Intervista a Marco Revelli

La caduta dell’altra Italia (espandi | comprimi)
Mi chiamo Marco Revelli, insegno scienza della politica all’università dal Piemonte Orientale, nei miei studi, nei miei precedenti libri mi sono occupato prevalentemente dei fenomeni politici, soprattutto dei fenomeni politici italiani, cercando di leggerli in controluce rispetto alle grandi trasformazioni socioproduttive, tecnologiche, quindi alle trasformazioni profonde che hanno cambiato la vita sociale.
Ho pubblicato questo libro “Controcanto” che ha come sottotitolo “Sulla caduta dell’altra Italia”, l’ho pubblicato da un editore di rottura, se vogliamo, con cui sento una forte consonanza di progetto come Chiarelettere, perché sentivo il bisogno di un gesto di rottura rispetto al clima opaco in cui viviamo. La spinta a mettere insieme questi scritti che coprono grossomodo un quinquennio è stata determinata se volete da un trauma, a un certo punto ci siamo alzati, guardati allo specchio come paese, non come individui, come paese e non ci siamo più riconosciuti, quantomeno non riconosco questa Italia nella quale mi sono trovato a vivere, non la riconosco nei suoi assetti istituzionali, nei suoi assetti politici, non la riconosco nei suoi comportamenti sociali in quello che siamo diventati e quindi la domanda era: come siamo diventati così come siamo oggi?
Com’è che l’Italia, che è sempre stato un paese dubleface, è sempre stato un paese con un grosso corpo dell’iceberg sotto il pelo dell’acqua torbido, complicato e non necessariamente virtuoso, la nostra autobiografia della nazione è un’autobiografia per buona parte inguardabile, inaccettabile, siamo il paese che ha inventato il fascismo, siamo il paese che è vissuto per decenni e decenni sotto il dispotismo Vaticano, siamo il paese dei grandi conformismi, ma fino a ieri esisteva anche un’altra Italia, un’altra Italia spesso minoritaria che in modo carsico ogni tanto spuntava dalla superficie e riusciva anche a prendere la parola e a segnare alcuni periodi storici, l’altra Italia che ha avuto delle voci critiche ma ascoltate, penso a Gaetano Salvemini, a Piero Gobetti, agli Ernesto Rossi, ai grandi eretici fuori dalle chiese e i quali tuttavia parlavano a un proprio pezzo di paese.


Il naufragio annunciato (espandi | comprimi)
Da un certo punto in poi è sembrato che tutto questo naufragasse, che rimanesse in qualche modo testimoniato da dei movimenti, certo, dei movimenti di radicale anticonformismo, che tuttavia non avevano più cittadinanza in nessun pezzo dell’Italia ufficiale, in nessun brandello dell’Italia raccontata dai media, in nessun frammento dell’Italia rappresentata nelle istituzioni e quindi mi sono chiesto: quando è che questo è successo? Quando è avvenuto questo naufragio?
Si potrebbe dire: era un naufragio annunciato, era una linea di galleggiamento che non è mai stata sopra il pelo dell’acqua, il naufragio è di sempre e in parte è così, però credo che ci sia un punto in cui questo processo sia accelerato e nel libro lo metto a fuoco, lo individuo nel passaggio dal 2006 al 2008 con l’epicentro nel 2007 in quella sequenza estate – autunno 2007, dove si sono condensati alcuni eventi che hanno influito sia sul livello istituzionale che su quello del comportamento.
Sul livello istituzionale ce lo ricordiamo tutti, è il periodo nel quale sono nate le due entità che avrebbero dovuto costituire i pilastri del nuovo sistema politico, il Pdl e il PD, sono nati in un processo liofilizzato, di liofilizzazione, sono nati attraverso operazioni istantanee, il Pdl con un proclama dal Predellino, fatto dal capo, il PD dentro la kermesse veltroniana di quelle grottesche, primarie e spurie perché si trattava di eleggere plebiscitariamente il capo di un partito non ancora nato e tuttavia quelle erano le due entità, i due partiti a vocazione egemonica che avrebbero dovuto ridisegnare l’architettura delle istituzioni italiane, intorno a un bipolarismo esclusivo, a un bipartitismo egemonico di due forze che volevano ammazzare e assorbire tutto ciò che avevano intorno e congiuntamente dialetticamente ridefinire la nostra impalcatura istituzionale.
L’altro evento che si è consumato nello stesso periodo, ha avuto a sua volta come epicentro un fatto terribile, l’omicidio di Giovanna Reggiani una fine di settembre di quell’anno, un episodio di cronaca nera feroce, che tuttavia è stato immediatamente proiettato sul grande schermo degli eventi nazionali, è un fatto avvenuto nella periferia romana con un colpevole e un responsabile immediatamente identificato e arrestato e tuttavia è diventato un fatto di governo, anche qui il link è il solito Veltroni, mi spiace dirlo, sembra di infierire su un caduto, ma bisogna dirlo, Veltroni ancora Sindaco di Roma e già leader del Partito Democratico, Veltroni che fa diventare fatto nazionale un episodio della periferia del suo comune e il fatto provoca la convocazione ad horas del Governo Prodi, è un fatto assolutamente eccezionale che avviene solo in genere quando scoppia una guerra o una catastrofe e viene varato il pacchetto sicurezza.


La Costituzione liquefatta (espandi | comprimi)
Si apre lì una deriva grave, secondo me, un episodio che fa sì che un intervento gruppo etnico diventi il capro espiatorio di una furia xenofoba con la benedizione di un governo di centro-sinistra, raccoglie un’onda lunga, quella partita a Firenze con l’orrenda ordinanza fiorentina contro i lavavetri, questa rottura anche in questo caso di una continuità culturale,
di quell’umanesimo che era stato sia del socialismo, sia del cattolicesimo sociale che aveva segnato le culture politiche italiane una rottura netta che ci mette su un piano inclinato dell’ostilità nei confronti dell’altro, del diverso, di quella che chiamo la prevalenza delle retoriche del disumano in cui la Lega Nord è maestra, ma rispetto alle quali sono stati contagiati un po’ tutti, qui il libro prova a raccontare questo, prova a raccontare la disumanizzazione del nostro paese dal punto di vista del costume e la liquefazione istituzionale di questo paese, l’immagine che uso è quella degli orologi di Dalì che si sciolgono, che diventano fluidi come esattamente le geometrie che la nostra Costituzione aveva disegnato in forma lineare e ortogonale che si curvano, che si piegano, che danno origine a una molteplicità di conflitti che fanno del nostro paese un paese in caduta libera dal punto di vista degli assetti della democrazia, su tutto questo campeggia in qualche maniera il faccione di Berlusconi e del suo racconto.


La Bolla comunicativa (espandi | comprimi)
Il saggio che apre il volume è intitolato “Il Berlusconismo come racconto totale” per indicare un fatto, il fatto che noi viviamo in fondo tutti dentro una grande bolla comunicativa che si è costruita nel circolo vizioso che va dal sistema dei media unificato e il governo politico del paese nella figura dell’attuale Capo del Governo
un circuito in cui un pezzo richiama l’altro e sostiene l’altro, nel quale ognuno di noi finisce per essere raccontato, per essere la comparsa di un grande racconto mediatico il cui linguaggio è dettato dalla banda di servi che vive intorno, che fa da corte al Capo del Governo e che ha non solo dalla sua il controllo e la proprietà del grande mezzo comunicativo che è la televisione, quello che produce la bolla, ma soprattutto che impiega il suo linguaggio, il linguaggio di Berlusconi è intrinsecamente il linguaggio televisivo, lo è nella sua struttura e non il linguaggio televisivo del telegiornale, dell’informazione, il linguaggio televisivo della telenovela, del reality show, dei contenitori che comunicano stili di comportamento e stili di vita, che fanno dire alla gente: Berlusconi parla il nostro linguaggio, non perché Berlusconi imiti il linguaggio della gente, ma perché Berlusconi ha offerto alla gente il proprio linguaggio, ha sovrapposto il proprio linguaggio al loro linguaggio originario, è diventato il mezzo comunicativo di tutti e chi accetta questa dimensione, chi sgomita per stare dentro il sistema comunicativo, mediatico prevalente, inevitabilmente finisce per essere raccontato da quel racconto, pensiamo al povero Veltroni, la sua retorica della fine dell’odio in politica è il brutto clone del Cavaliere o pensiamo a Bersani, a cui viene riscritto ogni giorno il copione, una volta rappresentante del partito dell’odio, l’altra volta rappresentante del partito dell’amore, l’altra volta a metà senza mai avere la propria autonomia.


Che ho a che fare io con gli schiavi? (espandi | comprimi)
Come se ne esce? Credo se ne esca bucando questa bolla mediatica e questa bolla comunicativa, che se ne esca con un atto di secessione etica e estetica prima che politica, un gran rifiuto di questa logica del racconto e di questa tecnica del linguaggio.
Da parte di qualcuno, ma non ne vedo nell’universo politico, non ci sono, che abbia per una volta il coraggio di scegliere un proprio popolo, per piccolo che sia e di fare un giuramento di fedeltà a questo, a prescindere dai vantaggi politici che se ne può trarre, una scelta di comportamento che non stia dentro la logica del compromesso continuo che domina la politica e anche un salto di linguaggio, un salto nella capacità di costruire nuove parole per una nuova lingua, la sinistra è morta perché è morto il suo linguaggio, le parole della sinistra novecentesca non hanno più corso legale oggi e non le ha sostituite con nulla che non sia questa meta lingua amorfa che comunica solo l’assenza di fede di coloro che la usano, per questo il titolo “Controcanto” un canto fuori dal coro, un canto che segue una musica diversa da quella che il grande circo del grande illusionista ha messo in piedi, il grande circo con i suoi servi.
Questa conversazione avviene in un luogo (Centro Studi Gobetti, Torino ndr) in cui aleggia lo spirito di una figura come Piero Gobetti, quest’ultimo nel 1922 diede alla propria Casa Editrice che elaborò uno straordinario controcanto rispetto al fascismo che si stava affermando come regime e diede a quella casa editrice un logo che riprendeva un’espressione greca “Tì moi sun douloisin?”, “Che ho a che fare io con gli schiavi?” O “Che ho a che fare io con i servi?” Credo che quel motto sia diventato di straordinaria attualità.

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