Nell’ambito della consultazione “Il Mondo che Verrà”, il WWF ha raccolto i contributi di 13 menti creative nel campo della sostenibilità economica, ambientale e sociale, che sono diventate un e-book liberamente scaricabile a questo indirizzo.
Di seguito il contributo di Catia Bastioli, amministratrice delegata di Novamont.
Il nostro mondo si trova ad affrontare una serie di crisi senza precedenti tra loro interconnesse, di enorme e crescente intensità, in lassi di tempo sempre più brevi. È il frutto di un modello di sviluppo lineare e dissipativo dell’economia che non è certamente sostenibile. Per questa ragione abbiamo il dovere di aumentare la nostra resilienza e di accelerare la transizione. La dimensione locale in questa trasformazione è essenziale.
Il Green New Deal è una imperdibile opportunità per mettere al centro la vita delle persone, la rigenerazione del capitale naturale, lo sviluppo di infrastrutture intelligenti, la spinta verso la qualità e sostenibilità dei prodotti, la formazione tecnica, umanistica e professionale, l’educazione civica e l’etica della responsabilità, accelerando sui temi dell’economia circolare e della bioeconomia intesa come rigenerazione territoriale. La sfida sarà nell’ adattare gli obiettivi europei alle necessità delle aree locali, con una strategia trasformativa a lungo termine che sia in grado di produrre effetti anche nel breve.
Per l’Italia occorre partire dai problemi e dalla biodiversità dei territori e trasformarli in formidabili progetti interdisciplinari di rigenerazione che coinvolgano anche le comunità evitando di investire tempo e risorse nella duplicazione di strutture, che rischierebbero di rallentare i processi di cambiamento e assorbirebbero preziose risorse. La sfida è soprattutto strategica e di creazione di connessioni tra piattaforme e filiere particolarmente avanzate, aggregando chi è più indietro nel cambiamento e dando spazio ad una molteplicità di tecnologie.
Occorre però dirci con franchezza che perché il processo di trasformazione abbia successo occorre rimuovere le cause per cui l’Italia è andata per anni più lentamente degli altri Paesi Europei.
Tali cause si devono cercare certamente nella mancanza di una strategia sistemica di lungo termine e nei grandi divari che si sono andati acuendo nel tempo. Hanno prevalso la visione a breve termine e gli interessi dell’oggi, lasciando irrisolti grandi temi: si pensi a quanto diceva Gardini nel 1989 sul problema dell’inquinamento dei siti industriali e sulla insanabile frattura tra industria e ambiente qualora fosse mancato un piano di risanamento a 20 anni che avrebbe dovuto coinvolgere Europa, Italia e gli imprenditori.
La politica dell’oggi ha finito per lasciare spazio all’illegalità e a un sistema burocratico che rischia di paralizzare tutto. Occorre quindi un’azione decisa per porre rimedio a questi problemi endemici per evitare che le ingenti risorse che verranno rese disponibili non vadano ad alimentare lo status quo, ma il processo di transizione.
Perché l’azione sia efficace nel più breve tempo possibile è necessario partire, innanzitutto, dal censimento di quei settori di innovazione e da quelle filiere locali già in grado di dare risposte, nel solco delle direttive europee. Sarebbe così possibile attivare un processo di innovazione incrementale indotta, di learning by doing, che, a partire da ciò che è fattibile oggi, permetta di accrescere le aspirazioni e le opportunità e di lasciare spazio a una molteplicità di iniziative imprenditoriali.
In questa prospettiva credo che un asset di grande rilievo di cui il nostro Paese dispone sono i Cluster Tecnologici Nazionali, che raccolgono una grande quantità di realtà diversificate nei settori della ricerca, dell’industria, dell’agricoltura, dell’energia, dell’ambiente e molto altro, con roadmaps già disponibili, nel campo della chimica verde e della bioeconomia circolare, del cibo, del mare, dell’energia, delle scienze della vita, dell’IT e con i primi grandi progetti sistemici che incominciano a realizzarsi.
Nel campo energetico e dell’efficienza dell’uso delle risorse, nonché del lavoro diffuso si pensi allo sviluppo di case attive e ai prosumers, alla digitalizzazione con particolare attenzione all’IoT, alla mobilità elettrica e alle loro interconnessioni. Importante poi è la trasformazione delle produzioni industriali perché diventino più rapidamente possibile carbon neutral o addirittura attive e non inquinanti (a tal proposito l’Ilva di Taranto potrebbe essere un caso eclatante).
Credo poi che l’Italia, circondata dal Mar Mediterraneo, che vede una maggiore velocità di crescita della temperatura e una concentrazione record di inquinanti, su questo fronte ha tutto l’interesse e tutte le carte in regola per diventare il primo paese dimostratore di bioeconomia in Europa. Tuttavia saranno necessarie delle misure a sostegno, come l’adeguamento e lo sviluppo di infrastrutture per il recupero e trattamento della sostanza organica e di altri fondamentali nutrienti nei flussi liquidi e solidi del rifiuto organico; investimenti nei settori della chimica e della biologia per ampliare le opportunità di trasformare rifiuti e co-prodotti destinati a diventare scarti, nonché biomassa da terreni marginali in prodotti sostenibili; supporto a progetti territoriali di filiera su prodotti innovativi in grado di interconnettere quanti più settori, dalla mobilità, all’energia rinnovabile, dalle raccolte differenziate alla valorizzazione dei sottoprodotti attraverso collaborazioni interdisciplinari ed un approccio circolare e rigenerativo all’agricoltura volto alla tutela degli ecosistemi, alla riduzione dei rischi per la biodiversità, e a riportare materia organica pulita in suolo, valorizzandola quanto l’energia rinnovabile, chiudendo il ciclo del carbonio. Non vanno poi dimenticati i 12Ml ha di foreste, per cui andrebbe prefigurato uno sfruttamento intelligente della filiera del legno, oggi utilizzata solo al 2%, incentivando la nascita di filiere locali con approccio rigenerativo.
A supporto di tutto questo sarà necessario adottare nuovi indicatori per misurare e monitorare le prestazioni dell’economia e della bioeconomia circolare nel tempo, in linea con i più autorevoli sistemi di standardizzazione in vigore e con le linee guida internazionali e nazionali. Solo così sarà possibile rendere efficace la misurazione della circolarità per inserirla nei criteri di accesso ai fondi di finanziamento e agli incentivi.
In tutto questo senza un massiccio coinvolgimento dei cittadini, a dispetto delle tecnologie disponibili, non saremo in grado di fare il salto necessario in tempi brevi. Le cinque Missions (suolo, acqua, città, clima e cancro) lanciate dall’Europa a supporto di Horizon Europe prevedono per l’appunto che i cittadini e i territori siano impegnati nel processo di innovazione, a partire dalle scuole. In questo contesto, le associazioni ambientaliste, con l’approccio della scienza partecipata, potranno giocare un ruolo rilevante nell’accrescere la consapevolezza, fare formazione di qualità con approccio olistico, e soprattutto nel coinvolgere le nuove generazioni e la società civile in progetti sistemici di territorio.
Andrebbero anche valorizzati i grandi progetti di comunità sviluppati negli anni dalle Fondazioni quali ad esempio l’housing sociale, lo sviluppo dei servizi alle famiglie, la sperimentazione di nuove forme di welfare per lavorare al meglio anche sulla rigenerazione del tessuto sociale e sulla promozione della solidarietà.
Dobbiamo infine poter contare su manager e imprenditori, nonché su investitori, accademici e istituzioni, che comprendano fino in fondo il valore del capitale naturale e della stabilità sociale e lo includano nei loro piani di sviluppo. Ciò implica anche un ripensamento del ruolo delle imprese nella società che deve andare ben oltre il profitto dell’oggi garantendo trasparenza e ricchezza diffusa per i territori, adottando standard sistemici, che vadano oltre gli ESG, come nel caso dei regolamenti per le B-Corps.
Per mettere in pratica tutto questo e rendere più resiliente il nostro futuro dovremo essere in grado di sperimentare nuove forme di collaborazione tra settore pubblico, privato e terzo settore, creando ponti tra aree ed anime diverse, provando a superare le appartenenze e gli egoismi, gli ostacoli e le barriere normative, portando sul mercato soluzioni coerenti che massimizzino le ricadute sulle comunità e la rigenerazione delle risorse naturali, utilizzando i prodotti innovativi derivanti dai nostri dimostratori e clusters, mettendoli a sistema, per creare un rivoluzionario Made in Italy.
Se dovessi individuare, nel tuo campo di interesse (di studio o ricerca) una proposta da te ritenuta prioritaria da realizzare in Italia con finanziamenti pubblici e/o privati per rilanciare l’economia italiana e che sappia coniugare l’innovazione del nostro sistema economico, produttivo e sociale con la sostenibilità ambientale, cosa suggeriresti?
Il nostro Paese vanta un patrimonio unico di biodiversità, una lunga sperimentazione nel campo delle energie rinnovabili, del risparmio energetico, della chimica verde, dell’agricoltura di qualità e a basso impatto, nonché virtuose collaborazioni e partnership tra soggetti del mondo pubblico, privato, della società civile per la realizzazione di progetti in grado di rigenerare i territori.
Molte realtà dell’economia circolare e della bioeconomia italiane hanno già dimostrato di avere tutto il potenziale per rilanciare la nostra economia coniugando innovazione e sostenibilità, non solo in termini di rigenerazione delle risorse naturali ma anche in termini di competitività e di creazione di nuovi posti di lavoro.
A titolo d’esempio penso al fondamentale progetto flagship lanciato dal cluster della chimica verde che riguarda il network di infrastrutture per il recupero e trattamento del rifiuto organico per valorizzarlo sia come compost che come biometano nonché come bioprodotti. Si tratta di un investimento che ha ricadute economiche, ambientali e sociali di grande rilievo, connesso con il settore agricolo, con la filiera delle bioplastiche e biochemicals, in grado di non accumularsi nell’ambiente, con le città, con l’educazione dei cittadini, a partire dalle raccolte differenziate e della valorizzazione del suolo. Il modello italiano della filiera del rifiuto organico, che ha dato già risultati eclatanti in alcune aree del Paese, potrebbe essere esportato in altri Paesi Europei in occasione dell’entrata in vigore della Biowaste Directive nel 2023, che proibirà in tutta Europa la messa a discarica del rifiuto organico.
Sempre a titolo di esempio, un progetto in grado di creare valore a partire dal capitale naturale e dalle interconnessioni di settori diversi, moltiplicando le ricadute degli investimenti, riguarda l’acqua agricola e la rete elettrica. Sappiamo infatti che perché le energie rinnovabili non programmabili possano crescere almeno come previsto dal Piano Energetico Nazionale, occorre disporre di importanti risorse di stoccaggio dell’energia per mettere in sicurezza la rete elettrica. D’altro canto le infrastrutture per l’acqua agricola sono per la maggior parte obsolete e andrebbero rinnovate. Ciò sarebbe possibile utilizzando l’infrastruttura, quando non attiva per l’irrigazione, per lo stoccaggio di energia nel servizio di dispacciamento nazionale, potendo così contare su una remunerazione per il suo ammodernamento. Qualora le norme prevedessero questa possibilità sarebbe possibile raccogliere rapidamente i fondi pubblici e privati necessari.
Questo tipo di investimenti sarebbero molto rilevanti per il Sud e avrebbero effetti positivi per lo sviluppo delle energie rinnovabili, per l’agricoltura, per gli insediamenti industriali per la decarbonizzazione, per il mantenimento della biodiversità, per la qualità della vita delle persone per l’interconnessione con altri Paesi del Mediterraneo.