di Danilo Della Valle – Sembra che finalmente il mondo abbia scoperto, dopo il clamore mediatico portato dal Friday For Future, che il nostro clima cambia velocemente, senza che possiamo percepire realmente ciò che accade, troppo presi dai ritmi frenetici che la società ci impone, presi da quel mondo consumistico e capitalista che molti degli stessi manifestanti “ambientalisti” troppo spesso dimenticano di criticare. Quasi in contemporanea con le manifestazioni nelle diverse città, un rapporto ONU sull’ambiente metteva in allarme anche gli analisti più ottimisti: se il mondo dovesse tagliare le emissioni di gas serra, come vorrebbe l’Accordo di Parigi, le temperature invernali nell’Artico aumenteranno di 3-5 gradi entro il 2050 e di 5-9 gradi entro il 2080 con tragiche conseguenze per tutta l’area. Sempre secondo le Nazioni Unite il rapido scongelamento del permafrost entro il 2050 renderebbe totalmente inutili gli sforzi dell’accordo di Parigi, favorirebbe una acidificazione degli Oceani e l’inquinamento da plastica oltre che mettere in serio pericolo circa 4 milioni di persone e diverse specie animali.
Eppure l’Artico non è solo protagonista del problema legato ai cambiamenti climatici; sembra sia diventato il nuovo terreno di scontro geopolitico tra le diverse potenze mondiali, tanto da poter spostare i nuovi equilibri geopolitici nell’estremo nord.
Il Polo Nord può essere qualificato a pieno titolo quale zona di alto interesse economico e militare: esso costituisce un percorso “breve” in grado di mettere in comunicazione alcune delle maggiori potenze mondiali e, proprio in forza del surriscaldamento globale, appare oggi di gran lunga maggiormente navigabile. È in quest’ottica che si inserisce la formulazione di nuove rotte come già avvenuto nel 2017 quando una nave petroliera russa è riuscita a raggiungere la penisola coreana non seguendo il tracciato classico, bensì il ben più breve percorso artico, senza nemmeno la necessità di essere accompagnata da una “rompighiaccio”. Inoltre, non può essere ignorata la potenzialità riguardo la disponibilità, ancora intatta, di risorse naturali di tutta l’area geografica; se infatti la britannica Chatam House (The Royal Institute of International Affairs) stima che la regione, nel proprio sottosuolo, potrebbe conservare quantità di idrocarburi fino a 90 miliardi di “barili”, l’Osservatorio Geologico statunitense (US Geological Survey) ritiene che almeno un quinto delle riserve di gas naturale sia situato nell’area. Ed è anche per questi fattori che la corsa per assicurarsi il controllo di questi spazi è sul punto di divenire una nuova polveriera in grado di far “immaginare”, e provocare, nuovi conflitti tra i molteplici attori dello scacchiere internazionale.
Chi è molto interessata all’area è la Russia che considera la questione “Polo Nord” un’istanza politica riguardante la sfera della difesa nazionale e del proprio territorio. Molto attenta alla ricerca sui cambiamenti climatici nella zona, Mosca ha investito circa 98 milioni di dollari nella stazione galleggiante denominata “Polo Nord” che ospiterà per tutto l’anno scienziati intenti a studiare i fenomeni atmosferici che negli anni hanno avuto un impatto devastante sui ghiacciai. Gli interessi russi sulla regione, considerata il proprio “cortile di casa”, sono stati palesati sin dal 2012, quando Mosca ha dato ufficialmente inizio ad un’incredibile attività di rafforzamento della propria presenza militare nell’Artico, giungendo, nel 2017, addirittura a produrre la nave rompighiaccio, alimentata ad energia nucleare, denominata “Sibir”. Inoltre dal 2013 in poi, la Russia ha posto in essere un’impressionante quantità di operazioni militarti d’esercitazione nell’area, con l’obiettivo di rendere “adeguata” ad ogni possibilità la propria “Flotta del Nord” entro il 2020 e di stabilire, in via permanente e per la stessa data, dieci centri di ricerca scientifica, sedici porti di grande capacità marittima, tredici aeroporti e dieci stazioni radar di difesa aerea, sia sulla terraferma, sia su piattaforme artificiali. Tutto questo naturalmente al fine di garantire la difesa delle coste, il controllo delle risorse e la gestione del nuovo, futuribile, proficuo network commerciale marittimo, che potrebbe interessare le rotte artiche più navigabili.
Ma il Cremlino non è certo il solo ascrivibile al novero dei governi che guardano al Polo Nord ed alle sue “potenzialità”.
Già da tempo la NATO, ed in particolar modo gli USA, tramite l’acquisizione in seno all’alleanza di buona parte dei Paesi che un tempo facevano parte del Patto di Varsavia ed il veicolato colpo di Stato filoatlantista in Ucraina del 2014, aveva cercato di spingere verso est la linea di contatto con Mosca, nel tentativo di limitarne l’azione politica e le future ed eventuali velleità territoriali; naturalmente con l’ingresso di questi nuovi Stati nella NATO si è accompagnata la munizione dei detti Paesi di considerevoli guarnigioni in funzione “difensiva”, o provocatoria a seconda dei punti di vista, con la conseguente comparsa di ingenti truppe occidentali nel Baltico, nel Mare del Nord ed in Polonia. Ma a segnare l’accendersi di un vero e proprio interessamento statunitense verso il controllo del Circolo Polare Artico, può annoverarsi il varo, nell’ottobre 2018, dell’operazione denominata “Trident Juncture”, il cui centro operativo di comando è stato situato proprio in Norvegia e che ha impegnato, su tutta la zona, un vero e proprio esercito di 50.000 unità. Operazione poi balzata agli onori della cronaca anche per il buffo episodio di una fregata norvegese affondata dopo un contatto in un fiordo con una petroliera maltese. La presidenza Trump ha pensato di consolidare la propria posizione nell’Artico, anche assicurando la funzionalità commerciale ed operativo-militare del proprio territorio nazionale prossimo al Polo Nord. È in questa ottica che va letto l’annuncio dell’Ufficio di Gestione del Territorio degli USA (Bureau of Land Management), giunto ad Aprile 2018, secondo cui sarebbero state presto avviate delle analisi di valutazione dell’impatto ambientale di eventuali installazioni produttive per estrazione di idrocarburi, in quei territori dell’Alaska che geograficamente sono parte del Circolo Polare Artico e che sino ad allora costituivano riserve naturali per la flora e la fauna tipica, con il chiaro obiettivo di accedere alla possibilità di sfruttare le presunte risorse, aggirando i vincoli di carattere ambientale. Tale accesso, laddove concretizzato, non farebbe altro che contribuire a soddisfare il bisogno di idrocarburi relativamente alla domanda interna statunitense, ridurre gli spazi di manovra del Cremlino in ordine alla gestione ed al reperimento di materie prime e far conquistare agli USA almeno parte del controllo sulle nuove potenziali rotte commerciali.
A complicare però la questione “artica” non può non essere considerato anche l’intervento della Cina come “un partecipante attivo, un sostenitore ed un investitore negli affari Artici”. Pechino ha definito il Paese quale “near Arctic state”, ossia uno Stato, in qualche modo “prossimo” al Polo settentrionale, e comunque interessato agli sviluppi geopolitici nell’estremo nord, con il preciso intento di sviluppare una sorta di “Via della Seta Polare” e di sfruttare le nuove rotte commerciali potenzialmente tracciabili nel prossimo futuro; e di certo una qualche pertinenza con l’argomento dovrà rinvenirsi nei massicci investimenti infrastrutturali di Pechino in Groenlandia, tesi anche a supportare, politicamente, il processo di riconoscimento dell’indipendenza dell’isola dalla Danimarca. Ma in questo caso non esistono strumenti certi di diritto internazionale per dirimere le eventuali rivendicazioni nazionali sulle risorse e sui mari del Circolo Polare Artico, con la conseguenza naturale della sussistenza del rischio (si spera remoto) dell’insorgenza di conflitti; a differenza dell’Antartide (per la quale è stato stipulato nel 1959 il Trattato Antartico), l’Artico non è mai stato oggetto di alcuna convenzione internazionale di carattere generale, limitandosi l’ONU al riconoscimento del diritto, per ciascuno stato “prossimo”, al riconoscimento di una Zona Esclusivamente Economica (EEZ), fino a 200 miglia marine dalle proprie coste.
E intanto cosa fa l’Unione Europea?
Dal 2008 l’Ue si è affermata come sostenitrice chiave della regione, cercando di migliorare il suo operato sull’ambiente Artico. Ma l’Unione Europea è anche una delle principali destinazioni delle risorse e delle merci provenienti dalla regione artica, e proprio per questo intende intensificare il dialogo con i partner dell’Artico per capire le loro preoccupazioni e collaborare con essi al fine di affrontare le sfide comuni.
Ad oggi, con l’uscita di scena degli Usa di Trump dall’Accordo di Parigi, l’Ue si trova di fronte ad un bivio: continuare il dialogo con Mosca per cercare soluzioni al problema o accentuare la “guerra fredda artica” che si va profilando. Certo, con l’uscita degli Usa di Trump dall’Accordo di Parigi e con la possibilità che il Presidente russo non segua il suo collega statunitense, la scelta della Ue potrebbe essere non così scontata… Ai posteri l’ardua sentenza.
L’AUTORE
Danilo Della Valle, laureato in scienze politiche e relazioni internazionali (con tesi sull’entrata della Russia, nel Wto); Master in Comunicazione e Consulenza politica e Scuola di formazione “Escuela del buen vivir” del Ministero degli Esteri Ecuadoriano. Si occupadi analisi politica, principalmente di Eurasia. Scrive per l’antidiplomatico, “Il mondo alla rovescia”.