di Fabio Massimo Parenti – La scorsa settimana abbiamo saputo della diffusione di proteste in varie città cinesi contro le misure previste dalla strategia di “zero covid dinamico”.
Le rigide misure anti-covid, anche a causa della moltiplicazione dei casi di infezione a livelli cui la Cina non era più abituata, hanno messo a dura prova la resistenza della popolazione (sottoposta a test giornalieri, lockdown localizzati e quarantene anche solo per essere passati in luoghi con un caso). Inoltre, una questione che ha contribuito a volte ad inasprire le tensioni ha riguardato l’eccesso di prudenza di alcuni responsabili locali, al livello di distretti e comunità, spesso per paura di subire provvedimenti punitivi. Pertanto, in alcuni casi è accaduto che i responsabili locali abbiano attuato misure più severe di quanto richiesto dal governo centrale.
Le proteste della scorsa settimana, che ad oggi sembrano rientrate, hanno visto il coinvolgimento di un numero di persone molto contenuto (gruppi di centinaia di persone in diverse città). Nel contempo, la possibilità di un’ulteriore allargamento delle stesse sembra essere stata neutralizzata dai primi provvedimenti di allentamento delle misure di contenimento, già annunciati ed implementati da alcune autorità cittadine sulla scorta delle nuove indicazioni del governo centrale. “Le città che stanno aggiustando le proprie politiche includono Chengdu, Tianjin, Dalian, Shijiazhuang e Shenzhen”, scriveva il GTs pochi giorni fa.
In generale possiamo asserire che mentre la maggioranza della popolazione sembra ancora accettare i sacrifici personali, sociali ed economici derivanti dal rispetto pieno di tutte le regole anti-covid – per motivi di sicurezza e responsabilità sociale – una parte crescente della popolazione, composta soprattutto da persone a basso reddito ma anche da piccoli imprenditori, sembra non tollerare più gli effetti negativi generati dalle restrizioni anti-pandemiche.
La reattività politica cinese che imbarazza l’Occidente
Finalmente molti apprendono che in Cina si può protestare e manifestare liberamente grazie ad un quadro normativo e legislativo affinato nel corso degli ultimi 20 anni. Codificato da una legge del 2005 su raduni e manifestazioni, e dal relativo regolamento applicativo, il diritto di manifestazione è ampiamente riconosciuto e tutelato in Cina. Lo stesso discorso vale per il potenziamento dei sindacati, di partito ed indipendenti, ed il correlato diritto di sciopero.
Le proteste di questi giorni offrono dunque un’altra lezione a coloro che da decenni disconoscono l’intensa dialettica democratica tra autorità e popolazione in Cina. Come già accennato, dopo una settimana di manifestazioni in diverse città cinesi, le autorità politiche hanno cominciato ad allentare alcune misure anti-covid. In questo caso, così come in altri casi di proteste diffusesi nel paese, il governo, che gode di consensi tra i più alti al mondo, è stato reattivo, molto di più rispetto ai governi occidentali in situazioni analoghe. Quest’ultimi pretendono infatti di dare lezioni di democrazia pur avendo fallito nel dare risposte a chi manifestava, tra il 2020 ed il 2021, per le stesse identiche ragioni (lockdown, limitazioni e divieti di spostamento ecc.). Anzi, c’è da dire che in alcuni casi, come quello del pass vaccinale per poter lavorare, i nostri governanti intrapresero strade ancora più restrittive di libertà e diritti fondamentali.
Siamo dunque in presenza di un’inversione di valutazioni a seconda del contesto considerato. E’ il consueto “doppio standard” con quale si valutano fenomeni analoghi in modo opposto. Si tratta essenzialmente di una patologia che affligge da molto tempo l’occidente e che trova la sua ragion d’essere nella competizione politica internazionale condotta con metodi disonesti e sleali. Nella fattispecie ed in breve: protestare contro le misure anti-covid in molti paesi occidentali era sufficiente per essere demonizzati socialmente e meritare meno diritti rispetto agli altri cittadini accondiscendenti. Nel caso in cui a manifestare per le stesse ragioni di fondo sono invece alcuni cittadini cinesi, essi rappresenterebbero dei coraggiosi combattenti per la democrazia. Dal Canada all’Italia passando per i principali paesi europei, i manifestanti sono stati non di rado caricati dalla polizia, etichettati secondo categorie di disprezzo sociale, marginalizzati e ridicolizzati dalle pubbliche autorità. In Canada si è giunti fino al blocco dei conti correnti dei camionisti ed in Italia al divieto di manifestare nei centri delle città (oltre alla sospensione dal lavoro per i non vaccinati).
E’ lo stesso metodo ipocrita applicato ai vari gruppi di terroristi durante le campagne belliche più recenti: tagliagole operanti in Libia, Iraq, Siria o Cina (Xinjiang), ad esempio, si trasformavano magicamente in ribelli combattenti per la libertà se funzionali all’obiettivo di cambio di regime di un dato governo.
Esagerazioni mediatiche
Alla luce delle informazioni disponibili sulle proteste in Cina, i soliti media occidentali hanno cominciato a politicizzare la questione, arrivando addirittura a parlare di somiglianze con le rivolte di Tiananmen del 1989. Quest’ultima è una chiara esagerazione perché priva dei due elementi politici che caratterizzarono le rivolte di più di 30 anni fa: un movimento politico filo-occidentale ed anti-governativo e la richiesta di adozione di un sistema politico diverso.
Le critiche rivolte in questi giorni da alcuni gruppi di cittadini cinesi alle proprie autorità hanno riguardato quasi esclusivamente l’impatto socioeconomico delle politiche anti-epidemiche e non sono state dirette contro il governo ed il partito tout court, se non in casi minoritari in relazione all’incidente di Urumqi. Al contrario, così come accaduto in passato per altre questioni ambientali, lavorative ed economiche, i manifestanti hanno protestato sventolando le bandiere della Repubblica popolare.
E’ noto che i media occidentali abbiano politicizzato la pandemia fin dall’inizio. Pertanto, le attuali distorsioni interpretative delle proteste cinesi possono essere valutate come fisiologiche, pur nel solco della loro profonda ipocrisia e contraddittorietà. Tutto ciò rientra in un quadro ancora più ampio di interferenza pluridecennale degli organi mediatici occidentali negli affari interni cinesi, costantemente finalizzata allo sfruttamento politico delle questioni inerenti lo status di regioni autonome o ad amministrazione speciale come Tibet, Hong Kong, Xinjiang e Taiwan.
L’AUTORE
Fabio Massimo Parenti è attualmente Foreign Associate Professor di Economia Politica Internazionale alla China Foreign Affairs University, Beijing. Ha insegnato anche in Italia, Messico, Stati Uniti e Marocco ed è membro di vari think tank italiani e stranieri. Il suo ultimo libro è “La via cinese, sfida per un futuro condiviso” (Meltemi 2021). Su twitter: @fabiomassimos