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La strategia tedesca che destabilizza l’Europa del Sud

beppegrillo.it - Aprile 23, 2016

di Andrea Cioffi, portavoce Movimento 5 Stelle Senato

Nei due interventi precedenti abbiamo messo a fuoco il blocco geopolitico russo-cinese, segnalando a volo d’uccello le linee di convergenza tra le due potenze. Vi è però un terzo attore che mira a costruirsi una spazio continentale autonomo dal controllo americano, e per questo non disdegna accordi infrastrutturali, commerciali e finanziari con Putin e Xi Jinping. Si tratta naturalmente della Germania, che l’ex segretario di Stato statunitense Henry Kissinger definì con acume “troppo grande per l’Europa e troppo piccola per il mondo”. La Germania, principale sconfitta delle “guerra civile europea“[1] che ha imperversato tra il 1914 e il 1945, si ritrova oggi padrona di un continente che non le riconosce a cuor leggero il suo ruolo egemone. Su questa contraddizione strutturale fanno leva con abilità gli Stati Uniti, che vedono di buon occhio un’Europa pacificata e unita, dipendente economicamente e culturalmente dalla madrepatria americana, e hanno quindi bisogno di un saldo comando regionale dell’asse franco-tedesco, in particolare sulla periferia meridionale. Ciò che non possono permettere, tuttavia, è che l’autonomismo tedesco metta in discussione l’equilibrio atlantico, e strizzi l’occhio alle potenze extraeuropee concorrenti. È esattamente quello che sta accadendo da qualche anno a questa parte, anche se ciò non autorizza a tirare conclusioni affrettate. La scontro è di intensità crescente, e per nulla prevedibile negli esiti.

Sotto questo luce potrebbe essere interpretata la feroce austerità che la Germania impone ai Paesi sud-europei, Italia in testa. Destabilizzarli economicamente ha consentito alla classe dirigente tedesca di accumulare crediti finanziari e di centralizzare verso Berlino i capitali europei, ivi inclusi quelli bancari, anche grazie alla politica mercantilistica che ha ampliato a dismisura il surplus commerciale della Germania a spese di Spagna, Grecia, Portogallo e, in misura minore, Italia e Francia. La partita, come testimoniano il bail-in e la severità tedesca nei confronti del Governo italiano, è tuttora in corso, ma il discorso non può limitarsi alla sfera economica. Potremmo chiederci se l’accanimento terapeutico nei confronti dell’Italia sia casuale, essendo il nostro Paese, insieme alla Francia, un consolidato alleato statunitense. Non è forse che la strategia tedesca miri a togliere consenso popolare alle classi dirigenti atlantiste, in modo da favorire sul medio periodo una loro sostituzione? La strategia tedesca va nella direzione di una semplice autonomia regionale o forse ha l’ambizione di trascinare al di fuori del blocco atlantico gran parte dell’Europa occidentale? Vi è di certo, comunque, che l’austerità tedesca deve essere valutata nel suo significato geopolitico complessivo, e non con le sole armi spuntate dell’analisi economica.

D’altra parte gli Stati Uniti non possono stare a guardare. L’appoggio del Fmi e del presidente Hollande alla Grecia di Tsipras, nel corso dei negoziati con la Troika europea, è indicativo. La linea economica del Fmi è di crescente ostilità all’austerità tedesca e di sostegno a politiche più espansive, che permettano agli Stati europei in difficoltà di ritrovare stabilità politica e togliere così fiato alle forze di opposizione definite “populiste”. In parallelo, Obama prosegue nella direzione di una sempre più stretta interdipendenza commerciale e finanziaria tra il Nord America e l’Unione Europea, e non vede l’ora di chiudere le trattative semi-segrete sul TTIP. Non è un caso che le manifestazioni più convinte contro questo trattato commerciale minaccioso si siano verificate in Germania.

Sarà utile, a questo punto, qualche nozione di base sui legami commerciali e finanziari tra le potenze in gioco.

Il blocco atlantico, del quale il TTIP è solo l’ultimo atto, vede un fitto interscambio commerciale e finanziario tra i due poli. Nel periodo 2000-2010 tre quarti dei flussi totali di Investimenti Diretti Esteri (IDE) in entrata negli Stati Uniti veniva dall’Europa, e le due aree insieme contano per quasi il 60% dello stock mondiale di IDE in entrata, e per oltre il 70% di quelli in uscita. Secondo i dati aggiornati al 2015 della CIA, gli Stati Uniti, in particolare, sono i primi investitori esteri al mondo, con 3 mila e 116 miliardi di dollari di IDE. Segue a ruota Hong Kong con 1838 miliardi, e la Germania con 1442 miliardi, mentre l’unione di Cina, Hong Kong e Taiwan supera la stessa potenza americana, accumulando 3630 miliardi di investimenti esteri. Regno Unito, Belgio, Svizzera e Francia anticipano di gran lunga l’Italia, staccata al sedicesimo posto con un totale di 490 miliardi di dollari. È una classifica molto significativa, perché gli IDE sono uno degli strumenti di politica estera più potenti a disposizione dei Governi, dato che si traducono nell’acquisizione del pacchetto di controllo delle imprese estere. Il Paese ricevente, quindi, perde non solo il controllo diretto o indiretto di aziende spesso strategiche, ma vede espatriare gran parte dei profitti e cospicui dividendi (nel caso di investimenti di portafoglio). Gli IDE sono peraltro attratti da legislazioni del lavoro particolarmente lassiste sul fronte dei salari e dei diritti dei lavoratori e provocano spesso delocalizzazioni di imprese locali in altri lidi, con l’utilizzo strumentale del marchio acquisito. Per il Paese ricevente, spesso e volentieri, si tratta di una spoliazione di ricchezza, come hanno imparato sulla loro pelle quei Paesi ricchi di risorse naturali e inondati di investimenti occidentali utili solo a garantire alle imprese acquirenti posizioni di rendita sulle risorse stesse. Il primato degli Usa, perciò, non deve stupire, mentre desta sorpresa la velocità con cui la Cina ha scalato posizioni e sorpassa, insieme alle enclavi di Hong Kong e Taiwan, il gigante a stelle e strisce. La Germania, infine, mostra un dinamismo di prim’ordine, anche se gran parte dei suoi IDE sono confinati in area europea, a ulteriore conferma della validità dell’intuizione di Kissinger.

Un occhio va dato anche alla capitalizzazione dei mercati azionari. Gli Usa sono ancora irraggiungibili, con oltre 23 mila miliardi di dollari investiti tra il Nyse e il Nasdaq, ma la Cina, con Shanghai, Shenzhen e l’Hong Kong Exchanges supera i 15 mila miliardi, mentre la Germania su questo fronte è molto indietro e la Russia non è pervenuta. Anche la capitalizzazione delle società quotate conferma l’assoluto predominio americano, con tutte le prime dieci posizioni occupate e il primato di Apple (565 miliardi) e Google (512 miliardi). La prima impresa cinese è undicesima, ed è la Bank of Cina, a testimonianza della diversissima struttura finanziaria delle due potenze concorrenti. Non è un caso, infatti, che il 61% del mercato azionario cinese sia in mano pubblica, e quindi non liberamente commerciabile, mentre per gli Stati Uniti questo dato scende al 6%. Più equilibrata la partita sul versante bancario, con la Cina prevalente in termini di asset totali.

In questa fase di riassestamento degli equilibri globali, della quale la lunga crisi economica globale è più un sintomo che una causa, non si può che chiudere qualsiasi ragionamento con la questione militare. È abusato ma sempre efficace l’aforisma del generale prussiano Carl von Clausewitz, secondo il quale “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. In un’epoca di concorrenza economica e geopolitica tra potenze, nessuna delle quali può vantare una superiorità schiacciante, è molto probabile che le frizioni, sempre più gravi, si risolvano poi in conflitto, spesso locale, ma talvolta anche continentale o globale. Il XX secolo è lì a ricordarcelo, nel caso volessimo dimenticarcene. Non è forse ancora il momento di fasciarsi la testa, dato che il predominio americano, sebbene eroso da più parti, è ancora un dato di fatto incontestabile, ma sarebbe da incoscienti ignorare il crescente dinamismo del blocco russo-cinese e la vitalità tedesca, anche considerando i crescenti malumori in seno al blocco atlantico, dovuti sia all’austerità europea che alla politica estera guerrafondaia del blocco atlantico, colpevole di aver scatenato l’immigrazione di massa sul fronte meridionale del Vecchio Continente.

Sul versante militare si devono registrare due evidenze: lo strapotere americano e la forza russa, che può essere combinata con profitto alla dinamica economia cinese e alla potenza regionale tedesca. Le spese militari parlano chiaro: nel 2014 gli Usa hanno impiegato 610 miliardi di dollari (3,5% del Pil), la Cina 216 (2,1% del Pil), la Russia 84 (4,5%) e la Germania 46 (1,2%). La Russia per investire la stessa cifra americana dovrebbe spendere l’equivalente del 29% del Pil. Un peso insostenibile, soprattutto in questa congiuntura di bassissimo prezzo del petrolio. Non va dimenticata, però, l’eredità della guerra fredda, che fa della Russia la potenza militare dominante per quanto riguarda i mezzi di terraele testate nucleari, insieme in questo caso agli Stati Uniti. La Cina primeggia ovviamente per dimensioni del personale militare, mentre gli Stati Uniti vantano un predominio aereo inattaccabile. Ma ciò che garantisce agli americani il primato complessivo è la quantità e la qualità degli alleati Nato, che nel caso di Italia, Turchia, Belgio ed Olanda garantiscono anche un punto di lancio strategico per le testate nucleari.
Con questa breve parentesi militare chiudiamo per il momento le nostre riflessioni geopolitiche, in attesa di una prima valutazione strategica del ruolo italiano all’interno delle coordinate globali qui delineate.

[1] La fortunata espressione è dello storico tedesco Ernst Nolte, che tuttavia negava le origine occidentali e borghesi del massacro europeo, spostando l’inizio del conflitto civile al 1917, anno della rivoluzione bolscevica a cui l’Europa occidentale avrebbe soltanto reagito.

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