A volte le imprese di maggiore interesse collettivo sono programmate nella segretezza più totale. Ogni anno, in un esclusivo resort termale sulle Alpi, una fondazione privata riunisce le figure più autorevoli della politica, del business e delle università svizzere per discutere delle questioni più scottanti e disegnare strategie relative a iniziative economiche, relazioni diplomatiche, pianificazione urbanistica e altre priorità nazionali. Nel 2014 il gruppo comprendeva lo speaker del Parlamento della Confederazione, i leader di tutti i partiti, consiglieri governativi, editori delle testate giornalistiche, CEO delle grandi banche, studiosi di primo piano dell’ambito scientifico e umanistico e un paio di ospiti stranieri. Dopo qualche ora di presentazioni e di piccoli brainstorming immersi fra lavagne piene di quadrati e freccette, ogni tavolo ha potuto esprimere l’analisi e le soluzioni secondo proprio punto di vista. La discussione stava continuando quando un anziano membro del Parlamento ha perso la pazienza. «Dove sta la creatività in tutto questo?», ha sbottato. «Siamo qui per lasciar da parte le nostre sicurezze. Quello che voglio vedere è un salto quantico!».
Raramente l’élite di un paese è così severa con se stessa. Eppure, se c’è un paese che ha il diritto di farsi i complimenti è la Svizzera, che siede stabilmente in cima, o nei pressi della cima, di quasi tutti gli indici globali di ricchezza, competitività, qualità della vita, innovazione e tanti altri indicatori. Ma la virtù cardinale della Svizzera è la capacità di fare affidamento sulle proprie forze. Proprio perché così piccola e vulnerabile, questa nazione ha sempre difeso gelosamente la propria indipendenza e la propria neutralità in mezzo ai turbolenti secoli della storia europea. Ha ospitato la Società delle Nazioni nella prima metà del xx secolo e oggi ospita la seconda sede per importanza dell’ONU – malgrado abbia aderito a quest’ultima solo nel 2002. È collocata nel cuore dell’Unione Europea ma probabilmente non ne farà mai parte. Lo slogan che ho sentito ripetere più volte durante quel meeting del 2014 è «Integrieren heisst verlieren», ‘integrarsi vuol dire capitolare’ (o, più colloquialmente, ‘l’integrazione è per i falliti’).
La paranoia strategica che anima la leadership svizzera è condivisa almeno da un altro paese, precisamente quello che fu scelto come ospite d’onore per il meeting alpino del 2014: Singapore. La Svizzera e Singapore, peraltro, sono le uniche due nazioni al mondo a figurare ai primi posti dei seguenti indici, che misurano chi possiede un vero piano per affrontare il futuro e chi no: il Global Competitiveness Index, l’Infrastructure Quality Index e il Sustained Prosperity Index del World Economic Forum, il Global Innovation Index dell’Institut européen d’administration des affaires (INSEAD) e il Government Effectiveness Index della Banca Mondiale. Questi due piccoli Stati sono anche modelli mondiali per quel che concerne la salute, la ricchezza, la bassa corruzione e l’alto tasso di occupazione.
A prima vista pochi paesi sembrerebbero così diversi tra loro. Certo, tutti e due hanno più o meno la sagoma di diamanti messi in orizzontale e bandiere bianche e rosse, ma le somiglianze finiscono qui. La Svizzera è una democrazia europea con settecento anni di storia alle spalle, mentre Singapore è una tecnocrazia asiatica che di anni ne ha compiuti cinquanta nel 2015. La Svizzera è l’archetipo della democrazia dal basso, con i referendum locali che influenzano anche le scelte più strategiche, visto che l’interesse nazionale non può discostarsi dalla volontà del popolo. La Svizzera ha un sistema di governo così decentrato che non ha nemmeno un presidente (o comunque un capo dello Stato), bensì un Consiglio federale di sette membri la cui presidenza ruota ogni anno (di questi membri la maggioranza dei cittadini non riesce a ricordare nemmeno tre nomi).
Singapore, al contrario, è sinonimo di governo top-down, secondo la regola per la quale chi governa “lo sa meglio di tutti”. Le sue politiche sono storicamente elaborate da tecnocrati sottratti allo scrutinio pubblico. Il padre fondatore di Singapore, Lee Kuan Yew, ha gestito il paese per quarant’anni come un’azienda di famiglia, e l’attuale primo ministro, Lee Hsien Loong, è ovviamente suo figlio (tutti, naturalmente, conoscono il nome di entrambi).
Persino l’estetica nazionale non potrebbe essere più diversa: la Svizzera montuosa e priva di sbocco al mare, Singapore un porto marittimo tropicale; Singapore una città-Stato urbanizzata al 100 per cento della sua superficie, la Svizzera un paese la cui popolazione è per un terzo rurale ed è famoso per le mucche e le cime coperte di neve. La skyline singaporiana è fatta dai luccicanti grattacieli delle grandi compagnie, mentre l’edificio più alto della Svizzera (il quartier generale dell’azienda farmaceutica Roche, a Basilea) arriva a malapena a quaranta piani (ed è comunque molto più basso della più alta diga del paese).
Qual è dunque, fra questi due, il sistema ideale per un mondo complesso e in rapido mutamento? Verso quale direzione dovrebbero guardare, oggi, le disorientate democrazie occidentali, verso la democrazia popolare svizzera verso la tecnocrazia strategica singaporiana? E quale dovrebbe essere il modello per le società postautoritarie da poco arrivate alla democrazia, la diversificazione economica organica della Svizzera o l’innovazione manageriale di Singapore?
La risposta è: tutt’e due. Dopo aver vissuto per un po’ in entrambi questi paesi sono arrivato a capire che, malgrado tutte le loro enormi differenze, la cosa più importante è che essi sono autenticamente democratici e rigorosamente tecnocratici al tempo stesso. Entrambi hanno un’alta percentuale di popolazione nata all’estero, servizio militare e civile nazionali, legami forti tra sistema scolastico e industria, economie diversificate e massicci investimenti dello Stato nella ricerca e sviluppo e nell’innovazione. Un ibrido fra la democrazia diretta della Svizzera e la tecnocrazia di Singapore una tecnocrazia diretta – è la forma migliore di governo per il XXI secolo. Se Platone fosse vivo oggi sceglierebbe gli svizzeri, istruiti e impegnati, come i cittadini ideali della sua repubblica, e i tecnocrati di Singapore, con la loro rigorosa formazione, come i suoi Guardiani.
Un ibrido fra queste due nazioni sarebbe il regime più noioso ma senza dubbio più efficiente del mondo – ossia esattamente ciò a cui ogni paese dovrebbe aspirare. Non importa che questi siano piccoli Stati con storie del tutto diverse da quella degli usa: non esiste un modello politico universale valido per tutto il mondo non è il loro e non lo è nemmeno quello americano -, ma le grandi nazioni di certo guadagnerebbero una governance migliore studiando il connubio fra democrazia e conoscenza che vediamo all’opera in Svizzera e Singapore.
Tratto dal libro “La rinascita delle città stato” di Parag Khanna