di Beppe Grillo – Le manifestazioni di queste settimane degli agricoltori europei hanno riportato al centro del dibattito alcuni dei problemi della produzione agricola che da molti anni attanagliano il comparto e allontanano le nuove generazioni dal lavoro nei campi. Per comprendere le ragioni delle manifestazioni di piazza serve analizzare il contesto, investigare le reali cause e valutare infine se chi oggi occupa strade e spazi pubblici ha ragione.
Il primo elemento che va analizzato è rappresentato dalla peculiarità dell’imprenditore agricolo, che lo differenzia totalmente da ogni altro tipo di imprenditore. L’agricoltore produce beni deperibili, i cui tempi di produzione sono determinati non dalle scelte di impresa ma dal ciclo naturale del prodotto. Questo elemento rende i produttori del comparto primario dipendenti dagli acquirenti. In sostanza siamo di fronte all’unico caso in cui il prezzo è fissato, quasi sempre, da chi compra e non da chi vende. Ciò comporta uno squilibrio molto forte nel modo in cui il valore aggiunto si distribuisce nella filiera, composta da produzione primaria, trasformazione e rete di distribuzione, in cui l’agricoltore è sempre l’anello debole. A titolo esemplificativo ma non esaustivo si consideri che ad oggi al dettaglio il finocchio viene venduto tra i 2,49 ed i 3,58 euro/kg, viene pagato al produttore tra i 0,20 e 0,25 euro/kg ed ha un costo di produzione vicino ai 0,20 euro/kg. Sostanzialmente può accadere che all’agricoltore convenga non raccogliere il prodotto!
Il secondo elemento tiene assieme i temi della transizione ecologica, della tutela dell’ambiente e del mercato, vediamo in che modo. E’ innegabile che l’agricoltura, come ogni attività antropica, ha una impronta ecologica, in particolare per alcune tipologie di attività (tra tutte, gli allevamenti intensivi) ma è vero altresì che negli ultimi 20 anni questa impronta, per le aziende europee, si è via via ridotta. In particolare in Italia l’impatto del settore agricolo, ad esempio, sulla produzione di gas climalteranti rappresenta meno del 7% del totale. Negli anni sono state adottate misure di mitigazione, mediante la riduzione dell’uso del pesticidi, il miglioramento delle pratiche agronomiche, la riduzione degli imput ambientali, l’implementazione di migliori rotazioni produttive con tipologie colturali rigenerative (leguminacee) e l’attuazione di minime lavorazioni che riducono il rilascio di sostanze nocive nell’ambiente. Tutto ciò è accaduto a livello europeo (ricordo che l’agricoltura e la sua gestione comune è stata il primo tassello della nascita del mercato unico e di fatto dell’unione europea) ma non in altre parti del mondo ove la produzione agricola avviene con un impatto sull’ambiente decisamente maggiore e dove i costi di produzione sono decisamente inferiori. In questo modo è evidente che risulta molto difficile poter chiedere uno sforzo ulteriore all’agricoltura europea senza agire su due fronti: il primo, mediante l’aiuto agli investimenti con un forte sostegno pubblico (il nostro Stefano Patuanelli é stato il primo a consentire all’agricoltura di accedere ai crediti di imposta del pacchetto Transizione 4.0 che sostiene gli investimenti in nuove tecnologie che consentono di sviluppare tecniche di agricoltura di precisione con un impatto decisamente inferiore sull’ambiente), il secondo, mediante meccanismi di aggiustamento del prezzo alla frontiera verso quei paesi extraeuropei che consentono produzioni impattanti, un po’ come si sta cercando di fare ad esempio per la produzione di acciaio primario.
Venendo ora ai temi delle manifestazioni, queste nascono in Francia e in Germania inizialmente per protestare contro alcune disposizioni della Politica Agricola Comune (PAC) che hanno un impatto più forte in quei paesi rispetto all’Italia (ad esempio la condizionalità imposta ai percettori PAC di tenere incolto almeno il 4% del compendio aziendale, a tutela della biodiversità, ha impatto nelle grandi pianure francesi e tedesche dove la maggior parte delle aziende potrebbero coltivare su tutta la loro superficie agricola mentre per le tantissime piccole aziende italiane, fatto salvo per alcuni grandi produttori della pianura padana, vi è sempre o quasi sempre, nella composizione aziendale, una parte del terreno impossibile da rendere produttivo, basti pensare alle zone sub montane, alle aree interne ecc ecc). Si sono poi spostate verso una critica ad un eccessivo “ambientalismo” della PAC del tutto immotivato (ricordo che a protestare contro la PAC al momento della sua approvazione sono stati proprio gli ambientalisti, denunciandone una eccessiva timidezza, a comprova che il compromesso trovato tra esigenze produttive e esigenze ambientali è stato il migliore possibile).
In Italia invece le manifestazioni stanno “sfruttando” la buonafede di tanti agricoltori in una lotta interna al centrodestra tra Lega e Fratelli d’Italia anche in funzione anti Coldiretti, a detta di molti troppo schiacciata sulle posizioni della Meloni e di Lollobrigida.
Ricordo che il governo ha:
- Ridotto i crediti di imposta di Transizione 4.0 del 50% (circa 1 mld);
- Eliminato la decontribuzione per i giovani agricoltori (55 mln);
- Reintrodotto l’IRPEF agricole (250 mln).
Cosa si dovrebbe fare a mio avviso:
- Sostenere la ricerca delle NBT (tecniche genomiche non OGM) che potranno consentire di avere produzioni meno “fragili” e con minor richiesta di input ambientali;
- Aumentare Transizione 4.0 per l’agricoltura;
- Ottenere una maggior tutela rispetto ai prodotti dei paesi terzi;
- Sostenere i progetti di filiera che tutelano il reddito degli agricoltori.
Di seguito un video molto interessante del canale televisivo Arte, che spiega le proteste di queste settimane e cosa è cambiato nella vita degli agricoltori in questi ultimi anni. Con un reportage dalla Francia e interviste agli esperti.