di Claudio Cominardi – In questi ultimi anni si sta concentrando il dibattito politico attorno alla proposta di istituire un salario minimo orario.
Nulla di nuovo sotto il sole.
Chi sostiene la proposta ricorda come la maggior parte dei Paesi europei abbia una legislazione dedicata. Chi la contrasta richiama il primato della contrattazione collettiva e paventa il pericolo di licenziamenti di massa dovuti a un repentino e insostenibile aumento dei costi del personale. Questi ultimi ignorando l’articolo 7 della proposta di Legge del MoVimento 5 Stelle che prevede benefici “proporzionali agli incrementi retributivi corrisposti ai prestatori di lavoro” proprio a favore delle imprese.
Non volendo banalizzare, è corretto ammettere che in parte questa preoccupazione possa essere legittima.
Ma ragioniamo in termini prospettici, l’aumento dei costi del personale costringerebbe varie aziende a creare nuovo valore aggiunto orientandosi verso servizi/beni di maggiore eccellenza che di contro genererebbero profitti adeguati alla qualità dei servizi resi. Dopodiché un aspetto tutt’altro marginale è che quei 3 milioni di lavoratori italiani e le corrispettive famiglie che ad oggi si trovano con paghe da fame inferiori ai 9 euro lordi, potranno elevare la propria propensione marginale al consumo sostenendo quindi il sistema economico. Tenuto inoltre conto che la spesa al consumo è in buona sostanza retta dalla classe media che drammaticamente ogni anno si impoverisce sempre più. Peraltro, ragionando in termini di entrate per lo Stato si stima 1,5 miliardi di euro all’anno tra maggiore Irpef incassate e minori uscite per sussidi.
Il contesto attuale è preoccupante se pensiamo che negli ultimi due anni vi è stata una perdita del potere di acquisto delle famiglie italiane del 15%. Ancor più se teniamo conto del fatto che il tasso di fecondità si attesta intorno a 1,2 nati per donna (terz’ultimi in Europa). Ad ogni modo va considerata la variabile tecnologia che avrà un ruolo sempre più pervasivo anche nei luoghi di lavoro. Automazione dei processi, digitalizzazione e intelligenza artificiale già stanno rivoluzionando il modo di lavorare e il pericolo è quello di vedere milioni di persone espulse dal proprio posto di lavoro. C’è chi sostiene che si creeranno nuove opportunità per gli “esclusi”, qualora fosse una previsione corretta resta l’incognita del quando, per quanto tempo non verranno ricollocati?
Al tempo stesso occorre tener presente che l’efficientamento dei processi produttivi ha sempre portato a una massimizzazione dei profitti per effetto di una maggiore produttività. Questi maggiori profitti dovrebbero inevitabilmente essere redistribuiti in favore della cosiddetta forza lavoro tramite l’aumento dei salari. Detto ciò, il salario minimo non è la panacea di tutti i mali, piuttosto un punto di partenza per affermare il concetto di lavoro dignitoso anche dal punto di vista remunerativo.
Le trasformazioni tecnologiche moderne hanno una rapidità di diffusione senza precedenti, con un impatto sociale potenzialmente devastante. Per cui, oggi più che mai, un altro tema centrale dovrebbe essere quello dell’istituzione di un reddito di base universale incondizionato.
Un’utopia per molti. Una necessità per lungimiranti intellettuali, per alcune amministrazioni pubbliche che l’hanno sperimentato, per uno degli uomini più potenti, innovativi e ricchi al mondo come Elon Musk e per centinaia di migliaia di cittadini che hanno sottoscritto la petizione per “introdurre redditi di base incondizionati in tutta l’Unione europea” (l’Italia è stato il secondo Paese in Europa per numero di firme raccolte, dietro solo alla Germania).
Tra i Paesi che hanno messo alla prova dei programmi nello spirito dell’RBI troviamo l’Alaska, il Canada nel Manitoba, la Finlandia, l’India per i residenti di Madhya Pradesh e il Brasile con la “Bolsa Familia”.
Tra i benefici sociali riscontrati: la riduzione delle diseguaglianze e delle disparità, un contributo concreto nel promuovere una società più equa e un risparmio in termini di tempo, di risorse in burocrazia per i cittadini e le pubbliche amministrazioni. Gli effetti diretti sui beneficiari nei diversi contesti hanno mostrato un miglioramento in termini di stress e di felicità con ripercussioni positive sulle condizioni di salute, un miglioramento della nutrizione, delle condizioni igienico-sanitarie e la frequenza scolastica tra i bambini e infine un effetto positivo sul tasso di fertilità.
Alla luce di queste evidenze e pensando al tema della lungimiranza e alla responsabilità a cui è chiamata la politica, non trovo frase più calzante e attuale di quella che pronunciò a suo tempo Alcide De Gasperi: “Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione”.
L’AUTORE
Claudio Cominardi, classe 1981, nasce a Calcinate (BG) e vive da sempre in provincia di Brescia. Nel 2013 diventa deputato della Repubblica Italiana. È stato promotore di “Lavoro 2025”, la prima ricerca sociale predittiva, interdisciplinare sull’evoluzione del lavoro nel prossimo decennio (Ed Marsilio) coordinata dal sociologo Domenico De Masi. Viene riconfermato dalle elezioni del 2018 ricoprendo durante il Governo Conte I la carica di Sottosegretario al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. In qualità di membro del Governo designato, si è occupato della conversione in Legge del Decreto istitutivo del Reddito di Cittadinanza e del Decreto Dignità. Attualmente ricopre l’incarico di Tesoriere del Movimento 5 Stelle.