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L’Italia a testa in giù

beppegrillo.it - Settembre 1, 2013

Opera di Zhang Dali

Il PIL dell’Italia ha registrato -0.2% nel secondo trimestre del 2013 contro -0.6% nel primo. E’ bastato un rallentamento della decrescita per far suonare le fanfare della ripresa al governo Letta promettendo una uscita dalla crisi che è invece lontana.
Fior di economisti, non da ultimi Fitoussi e Roubini, avvisano che la ripresa in Europa difficilmente ci sarà prima della fine del 2014 dal momento che la ricetta errata di “austerità e tasse” ha depresso salari reali e consumi in assenza dei quali parlare di ripresa è irrealistico. Le stime del Fondo Monetario indicano un magro +0.5% di PIL per l’Italia nel 2014, ma questa oggi sembra una chimera. Moody’s ha segnalato che un ritorno ai livelli pre crisi per l’Eurozona può attendersi non prima del 2016 -17 e solo per alcuni Paesi non periferici, quindi non noi. L’outlook negativo confermato da Moody’s per tutta la periferia d’Europa implica una probabilità del 33% di un ulteriore declassamento del rating nei prossimi mesi. Questo porterebbe la Spagna allo stato di junk (spazzatura) con inevitabili implicazioni di contagio per l’Italia che è stata retrocessa da Standard & Poor’s prima dell’estate a BBB, uno scalino sopra la Spagna e due sopra la spazzatura.
Il debito pubblico deve mantenere lo status di investment grade, di affidabilità, in almeno due delle tre agenzie di rating per essere incluso nei principali indici mondiali, quindi per riuscire a vendere i nostri titoli pubblici. Gli statuti dei fondi di investimento non autorizzano l’acquisto di debito pubblico non incluso negli indici.
Cosa succederebbe a spread e tassi in caso diventassimo “spazzatura” con la conseguente vendita “forzata” da parte dei grandi investitori esteri? Il default. La politica monetaria di Draghi è condizione necessaria ma non sufficiente a garantire la sostenibilità del nostro debito e la crescita. E’ da due mesi infatti che i tassi reali sono in aumento spinti dal cambio di politica monetaria della FED americana. Il rendimento dei titoli di Stato a 10 anni americano è passato da 2% a 2.7% nelle ultime settimane, e quello italiano ha seguito a ruota passando da 4% a 4.5%. Questo ha pesanti effetti sull’economia reale italiana. Infatti il credito a medio-lungo termine, particolarmente sensibile al rialzo dei tassi, rappresenta il 60% del portafoglio crediti del sistema bancario nazionale. Per le PMI il 65% del credito ad imprese in Italia è a medio-lungo termine e viene ricalcolato su tassi che sono in netto rialzo.
La Siria complica le cose. Il prezzo del petrolio è ai massimi degli ultimi tre anni come conseguenza dalla instabilità geo politica in Medio Oriente. Per Paesi come l’Italia questo significa maggiore inflazione per l’aumento del prezzo del petrolio. L’Italia è in uno scenario dove dopo due anni di austerità in nome di una presunta competitività, un alito di vento sul prezzo del petrolio e l’inflazione in aumento rischia di spazzare via ogni barlume di ripresa di competitività (ammesso che ci sia veramente). Serve a poco licenziare, ridurre i salari e tagliare le pensioni per acquisire competitività di prezzo interna se poi importiamo inflazione dall’esterno via petrolio. E’ inutile e nocivo sperare di diventare competitivi con la deflazione. Produttività e competitività si sono arrestati dal 1996, l’anno della rivalutazione della lira che portò a cambiare l’Euro a 1,936.27 lire. Fu tale conversione ad un tasso troppo alto richiestoci per entrare nell’Euro a segnare l’inizio del declino italiano come è emerso dai saldi negativi della nostra bilancia dei pagamenti nel decennio dell’Euro speculari rispetto ai saldi attivi della bilancia dei pagamenti della Germania.
Parlare di crescita in Italia risulta irrealistico. Se allunghiamo l’orizzonte al 2015 il quadro si fa cupo perché la variabile Fiscal Compact entra in gioco. Con il Fiscal Compact l’Italia si impegna dal 2015 a ridurre il suo debito in eccesso del 60% del PIL di un ventesimo all’anno per i successivi venti anni. L’entità dei numeri in questione è colossale, tale da rendere inspiegabile l’assenza del tema Fiscal Compact dal dibattito politico attuale. Con una crescita futura pari a zero (e non negativa come ora) rispettare il Fiscal Compact significa manovre da 50-60 miliardi di euro di riduzione del debito e un avanzo primario di almeno il 4% per il prossimo ventennio, o una riduzione della spesa pubblica del 15% all’anno oppure a nulla di tutto ciò a patto che si cresca al 3.5% di PIL l’anno. Impossibile. Quando iniziamo a discutere la ricetta Italiana a parte la tentazione di svendere i gioielli di famiglia (come l’ENI e l’Enel) per rispettare i vincoli del Fiscal Compact che ottusamente i partiti ci hanno regalato? E’ chiaro perché Letta punti a non oltre il 2015 nelle più rosee previsioni di vita del governo. Andare oltre tale data significa mettere sul tavolo temi ben più complessi di come cancellare l’IMU sulla prima casa per introdurre la Service Tax.
E’ a questi temi che si dovrebbe guardare quando si parla di crescita italiana, Capitan Findus Letta, non al meno zero virgola estivo celebrato da tutti i media compiacenti.

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