di Margaret Heffernan – Un biologo evoluzionista della Purdue University, William Muir, fece uno studio sui polli. Voleva sapere come rendere i suoi polli più produttivi, così escogitò un bell’esperimento. I polli vivono in gruppi, quindi ne selezionò una colonia media e la lasciò crescere per sei generazioni. A questo punto, creò un secondo gruppo composto dagli individui più produttivi, che chiameremo superpolli. Questi furono riuniti in una super colonia, selezionando da ogni generazione soltanto gli individui più produttivi.
Dopo sei generazioni, indovinate cosa scoprì? I polli del primo gruppo, quello medio, se la passavano benissimo. Erano tutti belli grassottelli e ben piumati e la produzione di uova era aumentata notevolmente. E il secondo? Tutti morti, eccetto 3 superstiti che avevano beccato a morte tutti gli altri. Gli individui più produttivi avevano raggiunto il successo solo eliminando la produttività degli altri.
Sono andata in giro per il mondo a raccontare questa storia in aziende e imprese di ogni genere e chi ascolta vede il nesso quasi immediatamente, si alzano e vengono a dirmi cose tipo: “Ehi quel gruppo di superpolli è proprio come la mia azienda.” Oppure: “Il mio Paese.” O ancora: “La mia vita.”
Da una vita mi sento dire che per andare avanti si deve essere competitivi: frequentare le scuole giuste, trovare il lavoro giusto, arrivare in cima ma in verità non l’ho mai trovata una cosa troppo stimolante. Ho cominciato a gestire imprese per il piacere dell’inventiva e perché lavorare fianco a fianco con persone brillanti e creative è gratificante di per sé. Non mi hanno mai motivata molto neanche le gerarchie e i superpolli o le superstar, per quanto ne so. Ma in questi ultimi 50 anni, abbiamo gestito la maggior parte delle imprese e alcune società ispirandoci al modello dei superpolli. Pensavamo che il successo si ottenesse selezionando delle superstar, scegliendo gli uomini più intelligenti, più raramente donne, e fornendo loro tutte le risorse e tutto il potere possibili. Il risultato è stato esattamente lo stesso dell’esperimento di William Muir: aggressività, malfunzionamento e sprechi. Se per l’individuo più produttivo, l’unico modo di avere successo consiste nel sopprimere la capacità produttiva altrui, vuol dire che urge assolutamente trovare metodi di lavoro migliori e un sistema di vita più gratificante.
Cos’è, dunque, che rende alcuni gruppi evidentemente più efficaci e produttivi di altri? Questa domanda se l’è posta un gruppo di ricercatori del MIT. Dopo aver reclutato centinaia di volontari, li hanno divisi in gruppi e assegnato loro problemi di difficile soluzione. Com’era prevedibile, alcuni gruppi sono stati molto più bravi di altri ma, significativamente, i migliori non si sono dimostrati quelli che contenevano uno o due individui dal Q.I. eccezionale. E nemmeno i gruppi con il Q.I. complessivamente più elevato. Le squadre migliori avevano, invece, tre caratteristiche. Innanzitutto, avevano un elevato grado di sensibilità sociale reciproca, un indice che viene misurato con il Test di Lettura dello Sguardo, ritenuto in genere un test di valutazione del grado di empatia. I gruppi con un punteggio elevato a questo test sono risultati migliori. In secondo luogo, nei gruppi migliori tutti avevano lo stesso tempo per parlare, in modo che non ci fosse una voce dominante, ma neanche partecipanti passivi. E infine, i gruppi più bravi erano quelli dove c’erano più donne. Sarà perché le donne di solito totalizzano punteggi più elevati al Test di Lettura dello Sguardo, finendo per raddoppiare il quoziente di empatia? O perché apportano di una prospettiva diversificata? Non si sa con precisione, ma la cosa più rilevante di questo esperimento oltre a ciò che sappiamo, e cioè che alcuni gruppi sono migliori di altri, è la dimostrazione che l’elemento chiave è costituito dalla loro connessione sociale reciproca.
Come funziona tutto ciò nel mondo reale? Le interazioni tra individui sono davvero importanti perché in gruppi di individui molto sensibili e in sintonia tra loro, le idee circolano e si sviluppano meglio. Gli individui non si bloccano. Non sprecano energie in vicoli ciechi.
Un esempio per tutti è Arup, una delle maggiori aziende di progettazione, incaricata di costruire il centro equestre per le Olimpiadi di Pechino. Questo edificio doveva accogliere 2.500 cavalli purosangue, nervosissimi perché provenienti da voli lunghi e sfibranti e quindi stressati dai fusi orari, e certamente non in forma smagliante. Il problema che il progettista si trovava ad affrontare era calcolare la mole di rifiuti da smaltire. Queste sono cose che non ti insegnano all’università. Decise così di chiedere aiuto. Trovò qualcuno che aveva progettato il Jockey Club di New York e il problema fu risolto in meno di una giornata. Alla Arup, la cultura della collaborazione viene considerata fondamentale per il successo.
Il concetto di cooperazione potrà anche sembrare sbiadito, ma per una squadra di successo rappresenta un punto cardinale che supera invariabilmente l’intelligenza individuale. Collaborazione significa che io non sono tenuto a sapere tutto, è sufficiente che lavori tra persone capaci di dare e ricevere aiuto. Alla SAP, stimano che a ogni domanda si possa rispondere in 17 minuti. Ma nessuna delle azienda high-tech in cui ho lavorato penserebbe mai che si possa trattare di un problema tecnologico, perché la collaborazione nasce da persone che si conoscono tra loro. Vi sembrerà fin troppo ovvio, è una cosa che accade normalmente, penserete, ma non è così. Quando gestivo la mia prima azienda di software, mi resi conto che ci stavamo bloccando. C’erano molti attriti e nient’altro, man mano, però, capii che tutte le persone creative che avevo assunto non si conoscevano. Erano così concentrate sul proprio lavoro individuale, che non sapevano neanche chi fosse il loro vicino di scrivania. Solo dopo le mie insistenze per smettere di lavorare e investire del tempo per conoscerci, ci fu il vero slancio.
Questo accadeva 20 anni fa mentre oggi visito aziende che vietano di portarsi il caffè alla scrivania perché vogliono che i dipendenti s’incontrino alle macchine del caffè e passino tempo a chiacchierare. In Svezia hanno perfino coniato un termine apposito, fika, che ha un significato più ampio della semplice pausa caffè. Vuol dire ristorazione collettiva. Alla Iddexx, un’azienda del Maine, hanno creato degli orti nella sede aziendale, per far sì che impiegati di settori diversi possano lavorare insieme e conoscere l’azienda nella sua globalità. Pensate che siano impazziti? Al contrario! Hanno pensato che quando il gioco si fa duro, cosa che accade quasi sempre quando si fa un lavoro veramente innovativo e importante, gli impiegati hanno bisogno di un sostegno sociale, devono sapere a chi rivolgersi per chiedere aiuto. Le aziende non hanno idee, le persone ce le hanno. E le persone sono motivate dai legami di lealtà e fiducia reciproca che formano tra loro. La cosa più importante è la malta, non i mattoni.
Nel suo insieme, tutto ciò si chiama comunemente “capitale sociale”, ovvero, quell’affidamento e quella interdipendenza che edificano la fiducia. Il termine deriva dalla sociologia, dallo studio di comunità che si dimostrano particolarmente resistenti in situazioni di stress. Il capitale sociale è l’elemento che dà impulso e che rafforza le aziende. Che cosa significa in termini pratici? Significa che il tempo è tutto perché il capitale sociale aumenta con il tempo. I gruppi che lavorano insieme più a lungo, diventano più bravi perché stabilire la fiducia necessaria per rapporti franchi e aperti richiede tempo. Il tempo crea valore. Quando Alex Pentland suggerì a un’azienda di sincronizzare le pause caffè per dare agli impiegati il tempo di parlare tra loro, i profitti aumentarono di 15 milioni di dollari e il grado di soddisfazione dei dipendenti crebbe del 10%. Niente male come ritorno d’investimento sul capitale sociale, che aumenta anche quando viene speso. Non si tratta di cameratismo o di istituzionalizzazione dei perditempo: chi lavora in questo modo tende ad essere piuttosto incisivo, entusiasta, assolutamente determinato a pensare con la propria testa, che è esattamente il tipo di contributo che gli viene richiesto. I conflitti sono frequenti ma innocui perché basati sulla sincerità. Accade così che delle buone idee si trasformino in grandi idee, perché nessuna idea nasce perfettamente definita. Emerge un po’ alla volta, come un bambino che nasce, un po’ disordinata e confusa, ma piena di possibilità. Ed è soltanto attraverso il contributo generoso, la fiducia e la sfida che essa realizza il suo potenziale. Il capitale sociale sostiene proprio questo tipo di processo.
Noi non siamo abituati a parlare di cose come il talento o la creatività in questo modo. Di solito, parliamo di star. Perciò ho cominciato a chiedermi: ma se iniziamo a lavorare così, vorrà dire che non ci saranno più star? Così, ho cominciato ad andare alle audizioni all’Accademia di Arte Drammatica a Londra. Quello a cui ho assistito lì mi ha davvero stupita. Gli insegnanti, più che ricercare individui particolarmente istrionici, erano interessati alle dinamiche che si venivano a creare tra gli studenti, perché quello era l’elemento veramente drammatico. Produttori di album di successo hanno affermato che: “Certo, ci sono tante superstar nel mondo della musica. Solo che non durano a lungo. Sono quelli bravi a collaborare che hanno le carriere più lunghe, poiché permettendo agli altri di tirar fuori il lato migliore, riescono a trovare il meglio in se stessi.” Sono andata a visitare alcune aziende, rinomate per genio e creatività, e non ho visto neanche una superstar perché tutti erano ugualmente importanti. Quando penso alla mia carriera, a tutte le persone straordinarie con cui ho avuto il privilegio di lavorare, mi rendo conto che potrebbe esserci un maggiore scambio reciproco se solo la smettessimo di cercare di essere dei superpolli. Quando si comprende veramente il significato del lavoro collettivo, è necessario cambiare molte cose. La gestione competitiva dei talenti ha sistematicamente messo gli impiegati l’uno contro l’altro. È ora di sostituire la rivalità tra individui con il capitale sociale. Per decenni, abbiamo cercato di motivare le persone con il denaro nonostante gran parte delle ricerche fatte dimostrasse che il denaro mina le relazioni sociali. Ora come ora, è necessaria la motivazione reciproca degli individui. Per anni abbiamo visto i leader come eroi solipsisti, dando per scontato che risolvessero problemi complessi, in totale autonomia. C’è bisogno di ridefinire il concetto di leadership come il tipo di comportamento che crea le condizioni necessarie affinché tutti gli individui insieme riescano a pensare nel modo più audace.
Oggi c’è bisogno di tutti. Solo se accettiamo che tutti gli individui hanno un valore saremo in grado di liberare l’energia, l’immaginazione e lo slancio necessari per creare l’eccellenza.
TEDX Translated by Patrizia Romeo Tomasini
Reviewed by Elena Montrasio
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