Riuscire a fare a meno dei carburanti aeronautici a base di cherosene sarà una delle imprese piú difficili da realizzare tra quelle necessarie per avere un mondo a zero emissioni di carbonio. Il trasporto aereo è responsabile soltanto del 2% del volume globale di emissioni e del 12% di quelle generate dal settore dei trasporti, ma il passaggio ai motori elettrici per gli aeroplani è un processo molto piú complicato di quanto lo sia per le macchine e i treni.
Il combustibile aeronautico che attualmente utilizziamo – la tipologia più comune è quella conosciuta come Jet A-1 – ha diversi vantaggi. La sua densità energetica è molto elevata, per ogni chilogrammo di peso contiene 42,8 megajoule; un valore di poco inferiore a quello della benzina, ma a differenza di quest’ultima può rimanere allo stato liquido fino a 47 C sotto zero ed è più conveniente dal punto di vista del costo, della perdita per evaporazione perché si registra ad altitudini elevate e del rischio che prenda fuoco quando lo si maneggia. Rivali credibili ancora non si scorgono all’orizzonte. Batterie che abbiano una capacità sufficiente per permettere di trasportare centinaia di persone in voli intercontinentali sono tuttora materia da fantascienza, e ci vorrà del tempo prima di riuscire a vedere aeroplani a fusoliera larga alimentati a idrogeno liquido. Ciò di cui abbiamo bisogno è un carburante equivalente al cherosene ma derivato da materiale vegetale o rifiuti organici.
Un simile biocombustibile aeronautico rilascerebbe, durante il processo di combustione, una quantità carbonica pari a quella che viene assorbita dalle piante durante la loro crescita. La fattibilità dell’idea è stata dimostrata: dal 2007, i voli di prova realizzati usando miscele di Jet A-1 e biocombustibile hanno rivelato di poter costituire un’alternativa adeguata, almeno per una parte dei voli, per l’aviazione moderna.
Da allora, sono stati compiuti qualcosa come 150000 voli sfruttando miscele di questo tipo, ma soltanto cinque dei maggiori aeroporti internazionali offrono una regolare distribuzione di biocarburante (Oslo, Stavanger, Stoccolma Brisbane e Los Angeles), mentre la sua disponibilità negli altri scali è solo sporadica. L’entità del consumo di biocombustibile della più grande compagnia United Airlines, rende perfettamente l’idea delle proporzioni scoraggianti di questa, pur necessaria, opera di sostituzione: il contratto con un fornitore di biocombustibile prevede la fornitura di un quantitativo pari al 2% del carburante complessivo consumato annualmente dalla compagnia. E’ vero, oggi le compagnie aeree sono incredibilmente frugali: bruciano circa il 50% in meno di carburante per passeggero-chilometro di quanto ne consumavano nel 1960. Ma il risparmio in combustibile è stato annullato dalla continua espansione del settore aeronautico, che ha aumentato il proprio consumo annuale complessivo fino a superare le 250 milioni di tonnellate a livello globale.
Per soddisfare un tale fabbisogno di carburante, utilizzando principalmente biocombustibile, dovremmo andare oltre i rifiuti organici e sfruttare le piante ricche di olio, stagionali (mais, soia, colza) o perenni (come la palma da olio), la cui coltivazione richiederebbe ampi appezzamenti di terra e comporterebbe problematiche ambientali. Le colture oleaginose dei climi temperati hanno una resa relativamente ridotta: con un raccolto medio di 0,4 tonnellate di biocombustibile aeronautico per ogni ettaro di terra coltivata a soia, gli Stati Uniti dovrebbero mettere a coltura 125 milioni di ettari – un territorio piú vasto di quello del Texas, California e Pennsylvania messi insieme, o leggermente più grande della superficie del Sudafrica – per rispondere al loro bisogno di carburante. Quattro volte i 31 milioni di ettari che il Paese ha impiegato nel 2019 per la coltivazione della soia. Anche la pianta con la resa migliore – la palma da olio, che può fornire mediamente 4 tonnellate di biocombustibile aeronautico per ettaro – richiederebbe comunque lo sfruttamento di oltre 60 milioni di ettari di foresta tropicale, al fine di soddisfare la domanda globale di combustibile aeronautico. Significherebbe quadruplicare la terra attualmente impiegata per la coltivazione dell’olio di palma, provocando il rilascio nell’atmosfera dell’anidride carbonica accumulatasi durante la crescita naturale della vegetazione.
Ma perché occupare vasti terreni quando è possibile ottenere biocombustibile da alghe ricche di olio? La coltivazione intensiva e su larga scala di alghe richiederebbe una superficie relativamente ridotta e offrirebbe un raccolto molto abbondante. Tuttavia, l’esperienza di ExxonMobil ci mostra quanto sarebbe difficile aumentare le dimensioni delle coltivazioni in misura sufficiente per produrre ogni anno decine di milioni di tonnellate di biocombustibile aeronautico. Nel 2009 Exxon, in collaborazione con la Synthetic Genomics di Craig Venter, si era riproposta di giungere a un simile obiettivo, ma nel 2013, dopo aver speso piú di 100 milioni di dollari, è giunta alla conclusione che gli ostacoli erano troppo grandi e ha deciso di tornare a concentrarsi sulla ricerca pura a lungo termine.
Come sempre, la sostituzione energetica sarebbe un obiettivo piú facile da raggiungere se solo riducessimo gli sprechi. Per esempio, volando meno. Ma è prevista una crescita considerevole del traffico aereo, in particolare in Asia. Abituatevi all’inconfondibile odore del cherosene usato per l’aviazione, ci terrà compagnia per un lungo tempo.
Tratto dal libro di Vaclav Smil, “I numeri non mentono”