Riceviamo e pubblichiamo, da un anomimo lettore.
In questi giorni il M5S è accusato di essere il principale responsabile della caduta del governo Draghi. In questa narrazione è accreditata la tesi che il movimento sia ormai diventato il partito di Giuseppe Conte e, per questo, la caduta del governo Draghi sia dipesa anche da sue ragioni personali.
Queste ipotesi sono d’altronde più che verosimili, sia perché la crisi del governo Draghi è stata innescata dal voto (o meglio, dal “non voto”) dei pentastellati nel decreto Aiuti del 14 luglio, sia perché la tesi che il movimento sia diventato il partito di Conte è accreditata da molti, sebbene soprattutto fra i fuoriusciti del movimento, sia perché è ben noto che Draghi e Conte si detestino cordialmente.
Tuttavia in questa narrazione c’è qualcosa che non quadra, a cominciare dal fatto che il movimento aveva solo da perderci. L’ipotesi che la crisi sia stata disegnata a tavolino per riconquistare il voto dei più estremisti non sta in piedi, sia perché avrebbe (come ha) compromesso l’alleanza del M5S con il PD (che con l’attuale legge elettorale vale molti seggi nei collegi uninominali) sia perché il governo Draghi è stato fortemente voluto da Beppe Grillo (tant’è vero che la cosiddetta agenda Draghi coincide sostanzialmente con gli obiettivi di transizione energetica e digitale per cui Grillo si batte da anni) sia perché il movimento ha ridimensionato da tempo la sua indole più ribelle, né si può ritenere che un suo recupero tardivo possa convincere gli elettori più estremisti a tornare a votarlo (tant’è vero che il successo di Giorgia Meloni si può spiegare anche nell’attrazione di questi elettori, che sono notoriamente molto volubili e volatili).
C’è invece un’ipotesi che potrebbe spiegare la crisi molto meglio, che parte dalla natura umana. Non tanto quella delle antipatie personali di Conte, quanto quella dell’istinto egoista che accomuna tutti gli esseri umani agli altri animali. Il movimento è stato promotore di varie leggi contro questa natura animale degli uomini, fra cui la riduzione del numero dei parlamentari. Ma soprattutto si è dato regole interne ancora più innaturali, fra cui l’obbligo di restituire una parte degli stipendi, la rinuncia al finanziamento pubblico (abbandonata solo di recente per problemi finanziari) e il limite del doppio mandato.
E’ importante ricordare che queste regole sono importanti non solo per Beppe Grillo, come si è visto recentemente, ma lo erano ancor più per Gianroberto Casaleggio, che credeva anche più di Grillo nell’ideale di un’azione politica disinteressata. Dopo la morte di Casaleggio, e soprattutto dopo il nuovo corso governista del movimento, alcuni “big” devono aver pensato che questo ideale ingenuo avrebbe finito per soccombere al realismo (se non al cinismo) della politica. D’altronde molti di loro erano ormai diventati così famosi da avere un vasto seguito personale, testimoniato dalla quantità dei loro seguaci nei social media. Rinunciarvi avrebbe potuto compromettere i risultati elettorali del movimento, dunque era logico pensare che il movimento avrebbe escogitato qualcosa per salvarli dalla tagliola del secondo mandato.
Senonchè qualcuno deve avere incominciato a sospettare che Beppe Grillo non vi avrebbe mai rinunciato. I segnali di questa sua determinazione si potevano già cogliere da alcuni post del suo blog all’inizio di quest’anno, fra cui il post “5 stelle polari” del 2 febbraio, ma soprattutto dai post “Il Supremo mi ha parlato” del 17 giugno e “Dictyostelium” del 21 giugno: lo stesso giorno della scissione di Di Maio e dei suoi seguaci. Sarebbe però ingenuo pensare che non la stessero pianificando da tempo: sicuramente dalle elezioni del Presidente della Repubblica, in cui sono chiaramente emerse le rivalità interne del movimento, ma probabilmente da molto prima. Fra le ragioni della scissione è verosimile non solo l’istinto naturale di chi, come Di Maio, non voleva rinunciare ai privilegi della sua esperienza politica, ma anche l’istinto, altrettanto naturale, dell’invidia per chi avrebbe – e, nel caso di Di Maio, aveva già in parte – “rubato” il “loro” posto. Bisogna ammettere che è difficile passare dalle “stelle” della maggiore forza politica in parlamento e dei ministeri più importanti a una vita normale, anche se non proprio di bibitaro. Questo loro istinto merita dunque tutta la nostra più umana (e animale) comprensione. Tuttavia, difenderlo in nome di ragioni ben più nobili appare quantomeno un po’ ipocrita.
Sicché, in preparazione della scissione, Di Maio e i suoi seguaci devono avere iniziato a porre in essere una serie di azioni ostruzionistiche volte a bloccare ogni istanza del movimento che non fosse aderente alle volontà, e forse anche alle “voglie”, di Mario Draghi; e ciò al solo fine di screditare il movimento agli occhi del pubblico e costruire un consenso su sé stessi “correndo in soccorso”, per usare le parole di Flaiano, del leader più rispettato d’Europa. D’altra parte questa loro strategia deve aver lusingato Draghi al punto di renderlo – forse anche perché dispiaciuto per non essere stato eletto Presidente della Repubblica – lo strumento inconsapevole del disastro che abbiamo visto tutti. In effetti negli ambienti pentastellati sono molte le testimonianze della frustrazione per il sistematico boicottaggio delle loro istanze da parte di Di Maio e accoliti, che è poi sfociata nel tentativo maldestro di salvare la faccia di fronte all’ostinazione di tirare dritto su questioni tutto sommato evitabili, o quantomeno mediabili e/o rinviabili.
Per questa “strategia” ci troviamo oggi nel caos di una campagna elettorale nel bel mezzo di una tempesta perfetta, in cui sibilano i venti di una guerra in Europa, di un’inflazione che non si vedeva da decenni, di una siccità che ha quasi prosciugato laghi e fiumi, di un autocrate che vuole annientarci e del rischio che vincano le peggiori destre della storia della repubblica. Ben scavato, vecchie talpe!