“Se la combriccola del bar allo spritz ha sostituito lo spread. Se in palestra l’istruttore disserta di Eurobond come di creatina per muscoli inflacciditi. Se al supermercato i pensionati, in fila per due etti di mortadella, maledicono BCE e FMI invece di badare ai loro livelli ematici di HDL e LDL. Ebbene, se tutto ciò accade, qualcosa forse non va. Può essere il sintomo di una società che ha smarrito il senso d’esistere, addentratasi nella selva lussureggiante della finanza facile senza spargere dietro di se nemmeno una mollica di pane. Ovviamente il discorso sarebbe più complesso, perché il gioco di prestigio dei Madoff di filiale ha messo alle corde risparmiatori e imprese anche loro malgrado. Ammettiamolo però, è stato eccitante, finché è durato, perdersi nelle illusioni di un vorticoso paese dei balocchi dove il valore delle cose è la loro quotazione virtuale, si tratti di un quadro o di succo d’arancia congelato, come presagiva quel genio goliardico di John Landis in piena sbornia reganiana. L’Italia delle famiglie e delle piccole imprese, che tra mille sacrifici e non pochi intrallazzi negli ultimi cinquant’anni ha prodotto ricchezza reale – per fortuna non ancora esaurita -, ha convertito buona parte del proprio benessere materiale in fiches di cinerea consistenza. E il banco vince, sempre. Eravamo piccoli, ma infaticabili e politicamente più lucidi (se non anche più onesti) di oggi, non scimmiottavamo saperi in scienza delle finanze e i soli numeri che sognavamo erano quelli del lotto. Ora le nostre fortune dipendono da altre cifre: Mib, Nikkei, Dow Jones, Nasdaq, per non parlare del temutissimo rating. Eh già, almeno un tempo avevamo l’alibi della cabala”. M. L.