
Tratto da The Economist
All’inizio di gennaio, a Kashgar, nell’estremo ovest della Cina, il sole non sorge prima delle dieci del mattino. Appena oltre il confine, nell’Afghanistan orientale, invece, l’alba arriva più di tre ore prima. Questo è il più grande salto orario attraverso un confine terrestre sul pianeta. La spiegazione è politica: la Cina, pur estendendosi su cinque fusi orari geografici, ha scelto di adottarne uno solo, quello di Pechino. Una decisione presa nel 1949, quando fu fondata la Repubblica Popolare, per rafforzare l’unità nazionale e l’efficienza amministrativa. In pratica, tutto il paese vive secondo l’orologio della capitale, anche se in molte regioni il tempo solare è drammaticamente sfasato rispetto a quello ufficiale.
Il concetto stesso di tempo standardizzato nacque alla fine dell’Ottocento, durante la Conferenza Internazionale dei Meridiani del 1884, quando fu stabilito il meridiano di Greenwich come punto zero del tempo globale. Ma ci vollero decenni prima che il sistema dei fusi orari fosse adottato in modo uniforme, e ancora oggi l’adozione non è affatto neutra. In assenza di un’autorità internazionale che regoli il tempo, ogni paese può scegliere liberamente la propria zona oraria. E spesso la scelta è tutt’altro che scientifica. In teoria, la divisione del globo in fusi orari dovrebbe riflettere la posizione del sole nel cielo: mezzogiorno dovrebbe coincidere con il momento in cui il sole è allo zenit. Ma nella pratica, le scelte si fondano su logiche economiche, strategiche e culturali. In alcuni casi si tratta di scelte simboliche, come quella della Spagna franchista, che nel 1942 si allineò all’ora di Berlino, e mai tornò indietro. Altri paesi adottano fusi orari con differenze inusuali, come il Nepal, che si discosta di 15 minuti rispetto all’India, per marcare un’identità autonoma. Oppure come l’India stessa, che unifica l’intero subcontinente sotto un unico orario, ignorando la grande estensione longitudinale del paese.
Ci sono poi scelte dettate da convenienze commerciali. Alcuni paesi decidono di sincronizzarsi con i partner economici più forti. Altri adottano o abbandonano l’ora legale più per ragioni politiche che per evidenze scientifiche. Alcune modifiche sono recenti: il Venezuela ha più volte spostato il suo orario avanti e indietro in base alla visione del governo di turno. Altri paesi, come la Corea del Nord, hanno introdotto un proprio orario per differenziarsi dalla Corea del Sud, salvo poi tornare indietro per motivi di immagine internazionale.
L’effetto di queste scelte non è solo simbolico. Vivere con un orario ufficiale molto distante da quello solare può avere conseguenze sulla salute. I ritmi biologici, o circadiani, dipendono dalla luce naturale, e uno sfasamento cronico tra orologio e sole può provocare disturbi del sonno, stanchezza cronica e calo di produttività. A Kashgar, gli studenti iniziano le lezioni ben prima che fuori sia sorto il sole. Molti abitanti lavorano fino a sera inoltrata, in un ciclo che sembra innaturale.
I fusi orari, più che essere strumenti tecnici per organizzare il tempo, sono specchi delle decisioni politiche di un paese. Scelte che raccontano storie di potere, identità, relazioni internazionali. Non c’è nulla di neutro nell’orologio che guardiamo ogni giorno. Il tempo, anche quello segnato dalle lancette, è una questione profondamente umana e, inevitabilmente, politica.