Articolo di James Bridle pubblicato sul The Guardian.
Negli ultimi due anni ho lavorato con alcuni ricercatori nel nord della Grecia che coltivano metallo. In un campo lontano e magnifico, sulle alture della catena del Pindo nella regione dell’Epiro, si sta sperimentando un trio di arbusti che gli scienziati hanno definito “iperaccumulatori”: piante che si sono evolute sviluppando la capacità di prosperare su terreni naturalmente ricchi di metalli tossici per la maggior parte degli altri esseri viventi.
Riescono a farlo estraendo il metallo dal terreno e immagazzinandolo nelle foglie e negli steli, che possono essere raccolti come qualsiasi altra pianta. Oltre a fornire una fonte di metalli rari – in questo caso nickel, anche se si sono trovati iperaccumulatori anche per lo zinco, l’alluminio, il cadmio e molti altri metalli, compreso l’oro – queste piante apportano attivamente dei benefici al pianeta perché riparano il terreno rendendolo adatto ad altre colture e intrappolano l’anidride carbonica nelle radici. Un giorno potrebbero soppiantare forme di estrazione mineraria più distruttive e inquinanti.
Le tre piante su cui si stanno conducendo esperimenti in Grecia – nel quadro di una rete di terreni di ricerca sparsi in giro per l’Europa – sono endemiche nella regione. L’Alyssum murale (alisso), che cresce in cespugli bassi ricoperti da cespi di fiori gialli, è nativa dell’Albania e della Grecia settentrionale; la Leptoplax emarginata, più alta e filiforme, con grappoli di foglie verdi e petali bianchi, si trova solo in Grecia; la Bornmuellera tymphaea, la più efficiente delle tre, sparge tutto intorno sul terreno un denso strato di boccioli bianchi e si trova solo sui declivi della catena montuosa del Pindo (il suo nome deriva dal monte Tymfi, una delle cime più alte della catena).
Da quello che ho potuto capire, in virtù della loro storia evolutiva e della loro stretta associazione con il terreno, il clima e il più ampio ecosistema in cui hanno fatto la loro comparsa, queste piante sono portatrici di un certo sapere, una comprensione e un’armonia nei confronti dei luoghi in cui si trovano a vivere. Gli umani frugano alla ricerca di giacimenti di metalli preziosi da migliaia di anni e hanno sviluppato sistemi sempre più violenti per accedervi, ma queste piante esistono da molto più tempo e hanno sviluppato modalità più giuste e rigenerative per fare più o meno la stessa cosa. Forse possiamo imparare qualcosa da loro.
Le piante iperaccumulatrici non sono gli unici esseri non umani da cui potremmo imparare qualcosa, come ci ha dimostrato la ricerca scientifica degli ultimi decenni. Pensiamo per esempio ai funghi mucillaginosi: strane creature unicellulari a metà tra i funghi e le amebe che pare siano bravissime a risolvere alcuni problemi matematici molto complicati. I ricercatori dell’università di Lanzhou, in Cina, hanno dimostrato che il Physarum polycephalum, un fungo mucillaginoso particolarmente vivace, può risolvere il problema del “commesso viaggiatore” – un test per trovare il percorso più breve tra diverse città – in modo più rapido ed efficiente di quanto sia mai riuscito a fare un qualsiasi supercomputer creato dagli esseri umani.
Stiamo scoprendo che tutti i tipi di abilità suggeriscono l’esistenza di interi mondi tra gli esseri non umani di cui non eravamo consapevoli.
È stato dimostrato che mucche, pecore, cani e altri animali sono in grado di prevedere i terremoti prima che i sismografi registrino i tremori. Abbiamo imparato che calamari e gamberi diffondono i neuroni nei loro corpi così da consentire agli arti, e probabilmente ad altre facoltà, di agire indipendentemente da una mente che li controlla dal centro. I ragni immagazzinano informazioni nelle loro tele, usandole come una sorta di intelligenza estesa: una mente completamente al di fuori del corpo. Dalla ricerca scientifica sta emergendo una nuova idea di intelligenza: l’intelligenza umana non è unica, né in cima a una qualche curva graduata, ma sembrerebbero esserci diversi tipi di intelligenza, ciascuna con punti di forza, competenze e congruità proprie.
Stiamo anche scoprendo che tutti i tipi di abilità suggeriscono l’esistenza di interi mondi di entità e consapevolezza tra gli esseri non umani di cui non eravamo consapevoli. A quanto pare le piante sentono e ricordano. In un esperimento è stata dimostrata la loro capacità di rispondere con difese chimiche al suono specifico dei bruchi che masticano le foglie, anche se viene trasmesso da un registratore. In un altro, le piante di Mimosa pudica – che se disturbate arricciano le foglie – hanno imparato a ignorare il fatto di essere innaffiate da una breve distanza se questo non le ha danneggiate e a reagire allo stesso modo quando l’esperimento è stato ripetuto a distanza di giorni o settimane, dimostrando di aver in qualche modo interiorizzato l’esperienza. E dal sottosuolo delle foreste sappiamo delle relazioni e delle conversazioni intrattenute da alberi che scambiano sostanze nutritive e informazioni tra famiglie e specie attraverso le reti di funghi che connettono le loro radici in modi che stiamo solo cominciando a comprendere. Anche questi sono tipi di intelligenza e sono inoltre modi in cui altre specie hanno imparato a sopravvivere a eventi potenzialmente letali.
Nella lotta per mitigare e adattarci alla crisi climatica e a tutte le altre crisi intrecciate tra loro che dobbiamo affrontare, stiamo cominciando solo adesso a capire che altri modi di sapere e agire sul mondo, dai sistemi di conoscenza indigeni ai cambiamenti nei nostri consumi e nei nostri modelli di vita, sono vitali per poter sopravvivere e prosperare su un pianeta più caldo, più umido e con più conflitti.
Traduzione di Giusy Muzzopappa pubblicata su L’Internazionale, che ringraziamo.