
di Beppe Grillo
Da quando Donald Trump ha riaperto la stagione delle guerre commerciali imponendo dazi punitivi sui prodotti europei, l’Europa ha rispolverato il vocabolario degli anni ’80: ritorsioni, contromisure, guerra commerciale. Si è parlato di rispondere con la stessa moneta: Harley, whisky, jeans. Ma forse, come spesso accade, stiamo guardando dalla parte sbagliata. I prodotti americani più presenti nelle nostre vite oggi non sono quelli sulle mensole dei supermercati. Sono quelli invisibili, quelli che ci leggono, ci profilano, ci suggeriscono cosa comprare, chi votare, cosa pensare. Sono i servizi digitali.
Ogni giorno affidiamo i nostri dati (personali, sensibili, a volte anche intimi ) a una manciata di piattaforme americane che ormai regolano il tempo, le abitudini, la comunicazione e i consumi di centinaia di milioni di europei. Google, Meta, Amazon, Microsoft, Apple: aziende private che decidono come funziona la nostra quotidianità. Noi facciamo ricerche, inviamo messaggi, lavoriamo, paghiamo, curiamo la nostra salute attraverso strumenti che non controlliamo, che non rispondono al nostro ordinamento, che spesso sfuggono persino alla comprensione di chi li usa.
E poi ci sono le PayTech, le aziende americane dei pagamenti digitali. Anche lì, l’Europa ha spalancato le porte e loro sono entrate a prendersi tutto: ricavi, dati, relazioni. Secondo un rapporto Mediobanca, già nel 2020 il fatturato delle 25 principali aziende del settore superava i 140 miliardi di euro, e le prime 15 erano tutte americane. L’88% del mercato europeo, in pratica. Il punto però non è solo quanto incassano: è quello che vedono. Perché non si limitano a processare pagamenti: raccolgono dati ovunque, su chi compra, su chi vende, su cosa, quando e come. E quei dati servono a molto di più che a far andare a buon fine una transazione. Servono a modellare offerte, a testare comportamenti, a prevedere bisogni prima ancora che li esprimiamo. È un ecosistema invisibile, potentissimo, che va ben oltre la carta di credito.
In nome della praticità e della gratuità, gli abbiamo consegnato le chiavi della nostra casa e il prezzo lo stiamo capendo ora. I dati sono diventati il nuovo petrolio, e noi stiamo seduti sul giacimento senza nemmeno sapere a chi lo stiamo regalando. Nel frattempo, negli Stati Uniti i profitti delle Big Tech crescono a dismisura, in Cina si costruiscono alternative di Stato, e in Europa si discute di come fare la digitalizzazione “a norma di GDPR”.
Qualcuno, per fortuna, ha cominciato a ragionare in modo diverso. Il mio quasi omonimo, Francesco Grillo, lo ha scritto recentemente in un editoriale sul Messaggero, “Perchè ha senso colpire le Big tech”. Non per spirito di vendetta, ma perché finché le regole del gioco le fa chi vince sempre, il risultato è scontato. L’Europa non ha colossi da proteggere, ed è proprio questo il suo vantaggio: può pensare regole nuove. Non deve difendere monopoli propri, può permettersi di immaginare un mercato digitale più aperto, più trasparente e più accessibile.
Ma attenti, non si tratta di rispondere ai dazi con altri dazi. Non possiamo giocare alla guerra commerciale con chi possiede le infrastrutture del mondo digitale. Serve un nuovo paradigma. Serve decidere se vogliamo continuare a essere una colonia digitale o tornare a essere protagonisti. Per farlo non bastano le dichiarazioni. Servono strumenti, investimenti, e soprattutto una volontà politica che vada oltre la burocrazia.
Abbiamo ricercatori eccellenti, menti straordinarie, università che formano talenti, aziende innovative, reti e data center all’avanguardia. Ma manca ancora il sistema. Manca un ecosistema integrato, in grado di mettere in rete queste risorse per costruire piattaforme europee vere. Manca il coraggio di investire in grande. Manca una strategia comune. Ci sono esperimenti promettenti: Gaia-X, ad esempio, vuole creare un cloud europeo basato su regole condivise e standard aperti; Qwant ed Ecosia stanno lavorando a un motore di ricerca europeo; Mastodon, sviluppato in Germania, è diventato una valida alternativa a Twitter/X, tanto da essere adottato anche da enti pubblici. Nell’intelligenza artificiale, il progetto BLOOM e la startup Aleph Alpha cercano di portare avanti un’AI sviluppata e controllata in Europa. Sono segnali importanti, ma ancora frammentati. E intanto la maggior parte del traffico europeo continua a passare per i server americani. Il cloud è dominato da tre aziende statunitensi. I dati dei cittadini, delle imprese, delle amministrazioni pubbliche, viaggiano ogni giorno fuori dal continente, in modo spesso inconsapevole.
Qui però l’Europa ha una risorsa che nessun altro ha: la capacità di regolare. Il GDPR ha stabilito, infatti, un rigoroso regolamento sui dati personali all’interno dell’Unione Europea. Il Digital Markets Act e il Digital Services Act cercano di limitare gli abusi di posizione dominante e di restituire trasparenza al mercato. L’AI Act, se andrà in porto, sarà il primo quadro normativo globale sull’intelligenza artificiale. È un’ottima base. Ma regolare non basta, se nel frattempo continuiamo a usare solo strumenti altrui.
Serve costruire, serve avere infrastrutture digitali europee, pubbliche e private, cloud sicuri, software open source, chip progettati e prodotti qui. Serve promuovere e adottare strumenti digitali europei nella scuola, nella sanità, nella giustizia. Serve tassare in modo equo chi genera valore nel nostro mercato e ne porta via i profitti. Serve formare cittadini consapevoli, capaci di capire che i dati non sono numeri astratti, ma pezzi della propria vita.
E serve dare alle persone un modo semplice per riprendersi ciò che è loro. Su questo blog abbiamo già parlato di un’idea concreta: un aggregatore personale di dati, uno strumento sotto il pieno controllo dell’utente, che raccolga tutto ciò che produciamo online (ricerche, cronologia, acquisti, spostamenti, documenti) che ci permetta di decidere cosa condividere, con chi e a che condizioni. Un portafoglio dei dati, insomma, che metta fine al modello in cui siamo noi il prodotto e altri a fare cassa.
Insieme a questo, si possono adottare misure strategiche chiare e concrete, a livello europeo:
- Investire in infrastrutture tecnologiche europee, dal cloud all’intelligenza artificiale, dai chip al software open source.
- Applicare una web tax che tassi equamente i profitti generati dalle big tech nel nostro mercato.
- Imporre la residenza dei dati pubblici e critici in Europa, soprattutto nella sanità, nella pubblica amministrazione e nella giustizia.
- Promuovere l’adozione di soluzioni digitali europee nei servizi pubblici, nella scuola e nelle imprese.
- Proteggere le startup europee, sia nel settore tecnologico che in quello fintech e dei pagamenti, da potenziali acquisizioni predatorie, e supportarle con fondi, programmi di accelerazione e politiche industriali mirate.
- Educare le persone al valore dei dati personali, perché possano esercitare davvero i loro diritti digitali.
Tutto questo non è solo una questione tecnica, è una questione politica, sociale e culturale. È una questione di libertà, perché oggi non possiamo più dire di essere del tutto liberi se ogni nostra interazione online dipende da server su cui non abbiamo alcun potere.
Riprenderci i dati vuol dire riprenderci la libertà di scegliere. Vuol dire smettere di fare da spettatori mentre altri decidono tutto al posto nostro. Non sarà facile, ma neanche continuare a guardare dalla parte sbagliata lo è.