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Lettera di licenziamento per il dipendente Cuffaro

beppegrillo.it - Gennaio 23, 2008

La solidarietà a Cuffaro da parte dei nostri dipendenti è oceanica. Oggi a lui domani a me? La solidarietà diventa automatica, un riflesso di Pavlov. Un istinto di sopravvivenza. Le toghe sono sempre rosse. O di sangue, o perchè emettono le sentenze. E’ un mondo, quello della politica, in cui solo chi è ricattabile è al sicuro. Non è pericoloso per gli altri. Non può denunciare. Il politico ricattabile è tenuto all’omertà.
Il problema non è Cuffaro in sè, non è nè il primo nè l’ultimo a essere condannato. E’ grave il silenzio delle istituzioni, che stanno abdicando al loro ruolo di garanti della giustizia e dell’ordine sociale. Se uno che ha preso cinque anni può continuare a fare il presidente di Regione, tutto diventa lecito.
Antonio Di Pietro mi ha inviato una lettera con cui ha chiesto a Romano Prodi di far dimettere Cuffaro in quanto la legge lo prevede e il Presidente del Consiglio può farla applicare. Prodi lo faccia, se esce di scena sarà almeno ricordato per un atto di giustizia.

“Al Presidente del Consiglio dei Ministri On.le Prof. Romano PRODI
Come Ti è noto, il 18 gennaio scorso il Tribunale di Palermo ha pronunciato sentenza di condanna per favoreggiamento e rivelazione di segreto nei confronti del Presidente della Regione siciliana.
I fatti addebitati al Presidente Cuffaro ed accertati dal Tribunale con la sentenza di primo grado, emergono nella loro estrema gravità, non solo per come attestato dalla pesante pena irrogata (cinque anni di reclusione e interdizione perpetua dai pubblici uffici), ma soprattutto in quanto si tratta di comportamenti di favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio su indagini riguardanti affiliati mafiosi. Al riguardo mi preme sottolineare due considerazioni.
In primo luogo, la condivisione sulle modalità per intervenire sulla vicenda, facendo puntuale applicazione di quanto già l’ordinamento vigente impone. Infatti, al riguardo, l’articolo 15, comma 4-bis della legge 19 marzo 1990, n. 55, prevede la sospensione di diritto, anche in caso di condanna non definitiva…
Come è noto, il percorso istituzionale prevede che il Presidente del Consiglio dei Ministri, sentiti il Ministro per gli affari regionali e il Ministro dell’interno, adotta il provvedimento che accerta la sospensione.
Tale esito discende, per fatti di gravità acclarati, dall’esigenza di garantire la tutela dell’interesse pubblico, leso dalla permanenza in carica e dallo svolgimento delle relative funzioni istituzionali da un soggetto rispetto al quale è stato accertato il venir meno di un requisito essenziale per continuare a ricoprire un ufficio pubblico elettivo. Ma, soprattutto, mi preme mettere in evidenza una seconda considerazione.
Come Ministro della Repubblica, e soprattutto come cittadino, sono sconcertato dalla reazione che ha caratterizzato il comportamento del Presidente della Regione Sicilia rispetto alla sentenza che lo ha condannato e che, a chiunque abbia dignità e rispetto verso le istituzioni, avrebbe dovuto suggerire soltanto di prendere la decisione di dimettersi…
Ritengo che il Governo non possa rimanere inerte rispetto alla vicenda in questione e che sia indispensabile l’adozione di misure concrete, in conformità a quanto previsto dall’ordinamento, volte ad assicurare il primato della legge ed il pieno rispetto del principio di legalità, restituendo, in tal modo, credibilità ed autorevolezza alle istituzioni dello Stato…
Si tratta di un adempimento doveroso, per il rispetto che tutti dobbiamo alle istituzioni e alla legge. Ma, ancora prima, per il debito morale che ancora dobbiamo saldare con le tante, troppe vittime della mafia e con i loro congiunti…
Mai come in questa vicenda l’esigenza di fare, e far presto, costituisce la doverosa forma di adempimento della legge che deve distinguere una classe dirigente degna di questo appellativo da una solo ipocrita e meschina. Sono convinto che non sei sordo a queste esigenze, e in maniera condivisa sapremo esprimerne la risposta più convinta e degna del rispetto che si deve a chi ha preferito sacrificarsi alla mafia, più che rivelarle segreti d’ufficio.” Antonio Di Pietro

Testo completo della lettera

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