di Tiffany Watt Smith – Ci sono delle emozioni che accomunano tutti, come la paura che si sente quando un’auto sbanda. Ma molto spesso, le nostre emozioni si accalcano tutte insieme, al punto che è abbastanza difficile riuscire a distinguerle.
Alcune emozioni sono difficili da definire. Un sociologo francese ha chiamato “ilinx”: il delirio accompagnato da lievi azioni di confusione. Per esempio, se svuotate il contenuto della vostra borsa su un tavolo, di fronte ad altre persone, sentirete una di queste bizzarre e intraducibili emozioni per le quali non c’è una chiara traduzione equivalente.
Alcuni psicologi evoluzionisti (il più importante è Paul Ekman) hanno suggerito che 6 emozioni, felicità, tristezza, paura, disgusto, rabbia e sorpresa, siano espresse in tutto il mondo nello stesso identico modo e quindi rappresentano gli elementi costitutivi delle nostre vite emotive.
Gli sviluppi più recenti nelle scienze cognitive mostrano che le emozioni dipendono sia dalla nostra natura biologica sia dalle culture nelle quali viviamo.
In quanto storica, ho sempre sospettato che come cambia il linguaggio, così fanno le emozioni. Quando guardiamo al passato, è facile vedere che le emozioni sono cambiate, a volte in maniera radicale. C’è una storicità per le emozioni che abbiamo iniziato a capire solo ora.
Lasciate che vi racconti una storia.
Tutto ebbe inizio in una soffitta alla fine del diciassettesimo secolo, nella città universitaria svizzera di Basilea. Qui c’è uno studente che vive a 60 chilometri da casa. Inizia a saltare le lezioni, e i suoi amici vanno a fargli visita e lo trovano abbattuto e febbricitante, con le palpitazioni, e con strane piaghe su tutto il corpo. Chiamano i medici che pensano sia così grave che per lui si recitano delle preghiere nella chiesa locale. Solo quando preparano il rientro a casa del giovane perché possa morire lì, realizzano ciò che stava succedendo. Perché quando lo caricano sulla barella, il suo respiro diventa meno affannato. E quando arriva all’entrata della sua città natale, si è quasi completamente ripreso. È in questo momento che capiscono che soffriva di una forma molto forte di nostalgia di casa. Era così potente che avrebbe potuto ucciderlo.
Nel 1688, un giovane medico, Johannes Hofer, venne a conoscenza di questo e altri casi e ribattezzò la patologia con il nome di “nostalgia”. La diagnosi prese velocemente piede negli ambienti medici di tutta Europa. L’ultima persona a morire di nostalgia fu un soldato americano che combattè in Francia nella Prima Guerra Mondiale.
Ma come era possibile morire di nostalgia meno di cento anni fa? Oggi, non solo la parola ha un significato diverso, ma la nostalgia stessa è vista come qualcosa di meno serio. Questo cambiamento sembra sia avvenuto all’inizio del ventesimo secolo. Perché? È stata l’invenzione del telefono o l’espansione delle ferrovie?
Tutti ereditiamo l’enorme trasformazione dei valori, ed è importante capire che questi grandi cambiamenti storici influenzano le nostre emozioni in parte perché influenzano il modo in cui ci sentiamo.
Oggi, celebriamo la felicità. Si presume che la felicità ci renda lavoratori, genitori e partner migliori. Si pensa che ci faccia vivere più a lungo. Nel sedicesimo secolo, si credeva che la tristezza facesse molte di queste cose. È possibile leggere libri di auto-aiuto di quel periodo, che incoraggiavano i lettori ad essere tristi, fornendo una lista di motivi per essere dispiaciuti.
Ovviamente le nostre emozioni non possono solo mutare nel tempo, cambiano anche da un luogo all’altro. I Baining della Papua Nuova Guinea parlano di “awumbuk,” una sensazione di apatia che cala quando un ospite alla fine va via. Si pensa infatti che gli ospiti che partono, lascino una sorta di pesantezza per poter viaggiare più facilmente. Questa pesantezza infetta l’aria. Perciò lasciano una ciotola di acqua fuori per tutta la notte, per assorbire quest’aria. La mattina presto del giorno dopo si svegliano, fanno una cerimonia e buttano via l’acqua.
Una delle mie emozioni preferite è definita da una parola giapponese, “amae.” Amae è una parola molto comune in Giappone, ma è in realtà abbastanza difficile da tradurre. Descrive il piacere che si prova quando si è capaci di affidare per un pò la responsabilità della propria vita a qualcun altro.
Gli antropologi suggeriscono che un motivo per cui questa parola è stata utilizzata e celebrata in Giappone è che questo paese ha una cultura tradizionalmente collettivista, mentre il senso di dipendenza ha un significato più negativo tra gli anglofoni, che hanno imparato a dare valore all’autosufficienza e all’individualismo.
Le emozioni ci parlano non solo di ciò che sentiamo, ma anche di quello a cui diamo più valore. Le emozioni non sono delle etichette neutrali. Sono legate ai valori e alle aspettative culturali, e comunicano idee riguardo a chi pensiamo di essere.
Dobbiamo essere consapevoli che la felicità o l’odio o l’amore o la rabbia, continuano a cambiare. Se vogliamo veramente capire ciò che proviamo, dobbiamo comprendere i significati delle parole, che oggi associamo alle emozioni. Solo così saremo in grado di comprendere meglio anche gli altri.
Traduzione di Ilaria Greco
Revisione di Silvia Fornasiero