di Alberto Arbuschi – Il mondo del lavoro è in crisi profonda, le università si svuotano e c’è un drammatico ritorno all’analfabetismo. Ironicamente nell’era dell’informazione nessuno sembra più interessato a nulla. Ed ecco che arriva l’ultima novità che promette di risvegliare i nostri neuroni e addirittura farci lavorare e imparare di più, meglio e, soprattutto, con tanta voglia.
Si chiama “Gamification del lavoro” e in realtà il concetto non è del tutto estraneo a chi si occupa di sociologia o psicologia sociale, ma quello che è davvero interessante sono i risvolti sociali che potrebbe avere. Abbiamo sempre più diplomati o laureati, possiamo accedere ad ogni tipo di informazione, possiamo visitare ogni posto del mondo e parlare con i più grandi esperti di qualsiasi settore, eppure non ci interessa più nulla.
Come insegnante posso vederlo tutti i giorni. In fondo i ragazzi che ogni mattina seguono le mie lezioni, lo fanno solo perché sono costretti. Se potessero fuggirebbero via a fare quel che più gli piace. Nessuno ha mai preferito lo studio ad una uscita con gli amici, lo abbiamo provato tutti da ragazzi.
Cos’è che oggi non funziona?
Lo scorso mese ho letto “La realtà in gioco” di Jane McGonigal e cosi ho deciso di fare un piccolo esperimento. C’è un periodo dell’anno in cui gli studenti devono imparare come la rete si connetta a cellulari e computer, come consenta di navigare sui siti ed effettuare pagamenti online e molto altro. Per quanto possa sembrare bello detto così, il compito è arduo. Imparare a programmare una infrastruttura del genere non è facile e, sicuramente, è molto noioso.
Così in un primo momento propongo una lezione canonica, tecnica, in cui dopo una prima parte teorica e matematica, si affronta il problema in laboratorio. Ma tutto va come al solito. I ragazzi sono svogliati, non ascoltano, pochi prendono appunti, alcuni parlano.
Provo un altro sistema.
Chiedo alla classe di progettare insieme un gioco nuovo a mo’ di caccia al tesoro da “sceneggiare” liberamente, in cui si debba usare googlemap, la telecamera del cellulare, il GPS, nonché definire arbitri e regole del gioco valutando tutte le implicazioni per garantirne il funzionamento e la gradevolezza d’uso.
Premetto che programmare un app per smartphone non è affatto semplice. Inoltre l’app deve connettersi ad un server inedito, tutto da inventare. Le richieste dei due sistemi sono di per sè identici, anzi il secondo compito è assolutamente più complicato, forse un lavoro improbo per dei 18enni che usano la rete ma sembrano non capirla, eppure … si scatena un VULCANO, le idee sgorgano, si confrontano, scelgono autonomamente, escono soprattutto DOMANDE su come si fa a fare questo e quest’altro, le mie risposte sono CAPITE AL VOLO, qualcuno si lancia addirittura spontaneamente sul computer a fare prove.
Cosa è successo? Stanno imparando al volo le stesse cose che ieri non capivano: una classe di noob (inesperti) si è improvvisamente trasformata in congrega di nerd (profondi conoscitori) costellata di geek (geni creativi) dell’informatica, cosa è successo?
In una realtà che diventa sempre più complessa, sempre meno istintiva e a misura d’uomo, questo aspetto psicologico forse andrebbe gestito e curato. Quali sono le alchimie che ci permettono di ricordare in 2 giorni il nome di 150 pokemon più le loro evoluzioni, cosa impossibile quando devo imparare anche solo 10 termini tecnici nuovi in un mese. La “gamification” del mondo del lavoro potrebbe scatenare un potenziale umano impensabile. In alcune aziende si stanno sostituendo le classiche interfacce dei programmi lavorativi o delle macchine da produzione, con schermi in cui si gioca.
Ma il punto non è questo. Non è rendere il lavoro più piacevole o meno noioso. Il gioco fa in modo che la gente diventi in grado di fare cose che pensava di non poter capire, apre le nostre sinapsi a nuove possibilità e forse nessuno lo chiamerebbe più “lavoro”.