Antonella Napoli, giornalista e presidente di Italians for Darfur Racconta il dramma del Darfur: 10 anni di guerra, 2 milioni di sfollati, 300mila morti- foto inedite di un villaggio bruciato
La Giornata per il Darfur (espandi | comprimi)
“Il 28 aprile viene celebrata in contemporanea in varie capitali del mondo la Giornata per il Darfur che, nel 2013, ha una valenza particolare essendo il decennale dell’inizio della crisi. Dieci anni di conflitto, dieci anni che hanno lasciato sul campo 300mila morti e oltre due milioni di sfollati in Darfur.
Lo scorso febbraio abbiamo denunciato tutto questo nel rapporto sulla situazione redatto al termine di una missione in Sudan lo scorso novembre. Ma a parte poche eccezioni, i media italiani continuano a ignorare questo conlfitto.
Sono tornata da pochi mesi dal Darfur dove ho trovato una situazione drammatica. Ho ancora impressa nella memoria una scena che mi ha toccato profondamente… Athash camp, Nyala, Sud Darfur. Il padiglione sanitario è gremito, come ogni giorno
Amane, giovane donna denutrita, indebolita dagli stenti e dal recente parto ha il seno arido. Non ha latte per la sua piccola: nemmeno un mese e una sola chance di sopravvivenza, il latte artificiale che le organizzazioni non governative distribuiscono ogni mese nei centri di accoglienza per i profughi della regione occidentale del Sudan scossa da un conflitto iniziato nel 2003.
Una siringa, 5 ml di gocce di vita a testa ogni quattro ore. Questo è quanto può sperare di ottenere giorno dopo giorno Amane, una delle tante madri che quotidianamente affrontano una crisi che non finisce mai.
Questa è solo una delle situazioni estreme in Darfur che, dopo dieci anni di guerra, di malattie e di fame, è allo stremo come tutta la sua gente.
Al nord come al sud, a el Fasher come a Nyala. Ed è proprio qui, nella capitale meridionale della regione, che ho raccolto testimonianze in controtendenza. Solo in questa piccola area della regione si registra qualche segnale di cambiamento.
Da gennaio a giugno 2012 il numero dei profughi che hanno deciso di far rientro nei villaggi di origine ha superato i nuovi arrivi.
Quattrocentomila persone, fino all’estate scorsa, aveva lasciato i campi gestiti dal Coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite in Sudan.
Poi il flusso si è arrestato a causa dei nuovi focolai di guerra tra forze militari governative e ribelli, sia darfuriani sia sud sudanesi, al confine con il Sud Sudan, stato divenuto indipendente nel luglio 2012.
E’ iniziata così una nuova emergenza. Contestualmente sono diminuite le ong operanti nella regione e sono state attuate nuove misure restrittive sul movimento degli operatori umanitari.
Oggi in Darfur si muore di dissenteria, malaria e tante altre patologie che nel mondo occidentale sono curabili. L’assistenza alla popolazione è stata di molto ridotta, in particolare nelle aree di Dar al Salam e Shangil Tobaya nel Nord Darfur, dove le autorità locali hanno imposto restrizioni alla distribuzione di beni primari come medicine e scorte alimentari.
Obiettivo di Khartoum, stanare i ribelli che nel nord continuano a contrapporsi al governo del presidente Omar Hassan al Bashir, sul cui capo pende un mandato di arresto internazionale per genocidio, crimini di guerra e contro lumanità.
Una guerra civile insolita(espandi | comprimi)
Quella in Darfur non è stata, non è, la “solita” guerra civile. In dieci anni, lottanta per cento dei villaggi è stato distrutto. Io ne ho visto uno. Muhajiria. Trenta capanne, una scuola o poco più. Tutto incenerito dalle bombe dellaviazione sudanese e dagli attacchi delle milizie arabe dei Janjaweed, i cosiddetti “diavoli a cavallo” assoldati, secondo il Tribunale dellAja, dal governo sudanese per contrastare la rivolta in Darfur.
Dal 2003 ad oggi quasi tre milioni di persone hanno abbandonato le proprie case, costrette alla fuga e a unesistenza al limite della sopravvivenza.
Le cifre sulle vittime non sono determinabili con certezza, le Nazioni Unite restano vaghe. I morti sarebbero tra i 200 e i 300 mila. Numeri ben diversi da quelli forniti dal Sudan che parla di 9 mila perdite. E per i sopravvisuti la quotidianità è dura, soprattutto quando ci si ammala. E’ per questo che di ritorno dallultima missione in Sudan, questa volta in qualità di presidente di Italians for Darfur, ho mobilitato i nostri sostenitori e nel giro di poche settimane siamo riusciti a raccogliere i fondi per avviare un’importante operazione umanitaria, un ponte aereo organizzato con l’Onu che ha portato a Khartoum quattro bambini gravemente malati.
Tutto è partito dalla mia visita all’ospedale di Nyala, l’esperienza che più mi ha toccata in questo mio quinto viaggio nella regione sudanese.
Tra i tanti piccoli ricoverati sei, in particolare, erano in condizioni critiche. Tutti i bambini erano in uno stato di salute pessimo e i medici del posto non avevano e non hanno – strutture e strumenti in grado di affrontare e curare casi complicati.
Da quando il centro pediatrico di Emergency è stato chiuso, non c’è altro luogo che possa fornire assistenza sanitaria ad ammalati con patologie gravi. E per questo che abbiamo pensato che lunica speranza di salvarli fosse quella di trasferirli a Khartoum, la capitale del Sudan.
Per farlo, grazie ai nostri contatti con Unamid, la missione di pace dellonu in Sudan, abbiamo organizzato un volo Onu. Le spese mediche le abbiamo coperte noi.
Molti altri piccoli pazienti, meno gravi, restano a Nyala. La situazione, lì, come in altre realtà del Darfur, non è ancora stabile.
Eppure solo pochi mesi fa pensavamo che l’accordo di pace firmato a Doha potesse finalmente porre finire alla lunga guerra in Darfur. E invece dopo un breve cessate il fuoco le violenze sono riprese più cruente che mai.
Nella sola settimana in cui ero in Sudan, un gruppo armato di miliziani ha fatto irruzione in un villaggio al nord di al Fasher e ha massacrato 13 persone, in un attacco a un convoglio diplomatico sulla strada da Kebkabiya a Nyala, capitale del Sud Darfur, sono rimasti uccisi un esponente politico locale e un funzionario Onu. Inoltre, a causa del ritardo della fornitura dei vaccini, bloccati a Khartoum per motivi di sicurezza subito dopo la ripresa degli scontri, è scoppiata un’epidemia di febbre gialla che ha causato la morte di centinaia di contagiati in sei settimane.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha evidenziato la pericolosità della situazione e ha lanciato lallarme della possibile diffusione della malattia nel resto del Paese. Anche le autorità locali hanno espresso grande preoccupazione soprattutto in relazione alle condizioni di scarsa igiene nei campi profughi che si sono moltiplicati ai confini del paese a causa della guerra civile.
E pensare che eravamo stati partecipi e testimoni di un progetto che aveva ridato una vita normale a tanti profughi del Darfur. Gli orti realizzati dai profughi, ai quali avevamo insegnato a coltivare vegetali e altri prodotti agricoli per uso familiare, avevano acceso una flebile speranza in coloro che erano tornati in quest’angolo pacificato della regione a nord di al Fasher.
Insomma qualcosa sembrava stesse cambiando. Un milione di sfollati aveva lasciato i campi profughi, che li avevano accolti dopo la fuga dagli scontri e dai bombardamenti, per far rientro nei villaggi di origine.
Oggi le notizie dei nuovi scontri spazzano via quella speranza, quellillusione di normalità e vanificano gli sforzi di quanti lavorano per trovare una soluzione a questa crisi umanitaria ormai incancrenita. Ne abbiamo avuto conferma sul campo. E lo abbiamo documentato. Le condizioni di vita degli sfollati assistiti nei campi profughi sono notevolmente peggiorate. Se Khartoum e le Nazioni Unite non riusciranno a colmare al più presto le lacune assistenziali che sia al Nord, sia al Sud rendono indegne l’esistenza di questa gente, la situazione non potrà che deteriorarsi ulteriormente.” Antonella Napoli, giornalista e presidente di Italians for Darfur
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