di Torquato Cardilli – Per il filosofo e giurista Vico la storia è caratterizzata dal continuo ripetersi di eventi racchiusi nella teoria dei corsi e dei ricorsi, cioè di avvenimenti che si verificano di nuovo con le stesse modalità a intervalli di tempo anche ampi.
Un esempio ci è offerto dalla guerra di Crimea. Quella antica a metà del XIX secolo e quella moderna. Allora si fronteggiavano due imperi: quello russo e quello ottomano, alleato di Francia, Inghilterra e regno di Sardegna; quella di oggi vede sempre la Russia contro l’Occidente.
Allora la Turchia voleva strappare la Crimea alla Russia, oggi la Russia ha voluto riprendersi la Crimea.
L’origine scatenante della prima guerra fu una disputa, se vogliamo di orgoglio più che di sostanza, sul controllo dei luoghi santi, concesso dalla Sublime Porta ai monaci cattolici protetti dalla Francia, a danno dei sacerdoti ortodossi protetti dalla Russia che chiesero aiuto a Mosca.
Quelli erano tempi (come ora?) in cui l’opinione pubblica e gli organi rappresentativi contavano zero e lo Zar non esitò, allo spirare dell’ultimatum inviato ad Istanbul, ad attaccare la Turchia. Questa chiese aiuto alla Francia che mobilitò la flotta e un corpo di spedizione.
L’Inghilterra, desiderosa di riaffermare il proprio ruolo politico-militare in Europa e bloccare l’espansionismo russo nel Mediterraneo (vecchio sogno di Caterina II la grande) si schierò immediatamente a fianco della Francia con l’avallo tacito dell’Austria.
Come fanno adesso gli Stati Uniti quando mettono in piedi una coalizione su ampia scala, come foglia di fico per nascondere le proprie mire di egemonia, l’Inghilterra convinse il regno di Sardegna – lo prova la corrispondenza tra i primi ministri il conte di Aberdeen e il conte di Cavour (La verità è sempre nella corrispondenza e mai nella letteratura) – ad unirsi nella guerra anti Russia pagando persino le spese di trasporto del corpo di spedizione sardo.
Gli scontri si svolsero in Crimea, con l’assedio e l’espugnazione da parte degli alleati della base navale russa di Sebastopoli.
Oggi la Crimea, ritenuta da Mosca da sempre appartenente alla Russia, è stata la scintilla che ha portato, in un’escalation continua, allo scontro tra Russia e Ucraina, sostenuta dagli Stati Uniti e dalle democrazie occidentali.
Anche in questo caso sono tornati in gioco i monaci ortodossi, tanto che il patriarca di Mosca Kirill, in chiara contrapposizione al Papa cattolico, ha incitato alla guerra e ha benedetto con l’assoluzione preventiva da tutti i peccati i soldati russi che partono per il fronte.
Sulla strategia militare dei due eserciti (russo e ucraino) mi viene spontaneo fare riferimento alla descrizione di Tolstoj della disastrosa guerra di Napoleone che fece la scelta sbagliata di fronte alla ritirata tattica verso l’interno dei russi.
L’occupazione francese di Mosca durata poco più di un mese fu interrotta da un colossale incendio che obbligò Napoleone ad evacuare la città e a rimanere con il suo esercito senza ripari e senza vettovaglie.
Il generale zarista Kutuzov rinviò lo scontro decisivo fino alla tragica battaglia della Beresina quando l’armata francese, in ritirata senza speranza verso la Francia, aveva già dato segni di sbandamento per la durezza dell’inverno, per l’assenza di rifornimenti e per le imboscate dei contadini locali.
Mutatis mutandis, mi sembra che la veloce riconquista ucraina in sette giorni di vaste zone già occupate dai russi in sette mesi a costo di gravi perdite, corrisponda alla classica trappola della strategia russa che a differenza dell’Ucraina potrà contare sulla coscrizione di un grande esercito, sulla durezza dell’inverno in arrivo, particolarmente rigido per chi non avrà più rifornimenti né strutture operative. Altrimenti non si spiegherebbe la mobilitazione di 300.000 uomini se l’intenzione è quella di ritirarsi per sempre.
Il diritto internazionale non consente l’acquisizione di territori stranieri con l’uso della forza e l’ONU ha solennemente e ripetutamente dichiarato che i confini internazionali non possono essere tracciati dai carri armati o dai missili.
Un giorno, forse, i libri di storia porranno la questione del perché Israele ha potuto farlo annettendo con le armi nel 1967, senza nemmeno un referendum farsa, ma anzi imponendo la legge del più forte, Gerusalemme araba dichiarandola sua capitale in violazione e contro le risoluzioni dell’ONU che vietano qualsiasi modifica dello status giuridico della città.
Israele ha anche occupato militarmente, erigendovi muri e filo spinato, altri territori della Cisgiordania e delle alture del Golan siriano in cui vivono palestinesi, salvo i nuovi coloni israeliani che vi si stabiliscono usurpando terre, distruggendo oliveti e colture di poveri contadini locali per costruirvi i loro insediamenti, protetti da soldati armati di tutto punto, ma soprattutto protetti dalla acquiescente complicità di un occidente ipocrita che si fa beffe di un centinaio di risoluzioni di condanna della Assemblea Generale dell’Onu.
Perché questo doppio standard di palese cinismo di varie potenze in politica estera?
Nel Palazzo della pace dell’Aja (Vredespalais), sede della Corte internazionale di giustizia, della Corte permanente di arbitrato, dell’Accademia di diritto internazionale, c’è un gruppo scultoreo in bronzo di belve feroci di diversa grandezza, pura metafora dei rapporti internazionali: quelle più robuste sono intente a sbranare quelle più piccole nell’indifferenza di quelle medie. E’ quanto accadde in occasione del congresso di Vienna del 1815 in cui due imperi autocratici si misero d’accordo a spese della Polonia. La stessa cosa accadde sempre a spese della Polonia con l’intesa Molotov-Ribbentrop, stipulata a Mosca una settimana prima dell’inizio della II guerra mondiale, poi violata da Hitler.
Identico destino di agnello sacrificale potrebbe accadere oggi a spese dell’Ucraina se Usa e Russia, con la benedizione della Cina, e la soddisfazione delle altre potenze, si mettessero d’accordo pur di salvare la pace del mondo.
Vale la pena rischiare nel campo di battaglia ancora migliaia di morti e ulteriori distruzioni totali, in Europa sommovimenti popolari per le ristrettezze imposte dalle sanzioni, il tracollo dell’economia, la recessione con fallimenti a catena, la miseria più nera, la fame in un intero continente, e soprattutto la catastrofe nucleare per una striscia di territorio equivalente a meno di un sesto dell’Ucraina?
Nel nostro medio evo era corrente l’espressione religiosa “il santo non vale la candela” poi trasformata dai giocatori nelle bettole “il gioco non vale la candela” per significare che i probabili miracoli del santo di terza classe o i guadagni del gioco erano inferiori al costo, a quei tempi alto, della candela di devozione o per giocare.
Dunque l’amputazione, per quanto illegittima, di porzioni di territorio ucraino non vale il rischio della distruzione fisica dell’Europa, già iniziata sul piano economico.
Del resto chi osa dire oggi che bisogna continuare lo scontro armato per mandare di traverso ad Israele l’occupazione militare, altrettanto illegittima, dei territori palestinesi?
L’AUTORE
Torquato Cardilli – Laureato in Lingue e civiltà orientali e in Scienze politiche per l’Oriente. E’ stato Ambasciatore d’Italia in Albania, Tanzania, Arabia Saudita ed Angola. Ha redatto oltre 200 articoli di carattere politico ed economico pubblicati in Italia e all’estero da varie testate ed agenzie di stampa.