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L’11 luglio 2009 è ricorso il trentennale dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli. Un omicidio di Stato. Il mandante fu Michele Sindona, l’omicida un mafioso. Sindona era protetto da Andreotti, intimo di Licio Gelli, sodale di Marcinkus, collegato con la mafia. Un uomo solo contro partiti, P2, Vaticano e mafia. Chi ha vinto dopo 30 anni? Il blog ha intervistato Umberto Ambrosoli, il figlio che allora aveva sette anni. Umberto, nel ricordare il padre, dice: “Difendere la propria libertà diventa il modo per rappresentare gli interessi della collettività“. Uomini liberi si nasce e, spesso, si muore.
Testo dell’intervista:
Ambrosoli: Quando papà è mancato io avevo sette anni.
Blog: cosa ricorda di quei giorni?
Ambrosoli: I ricordi sono pochi com’è legittimo che sia per un fatto accaduto in quella fase dell’infanzia, tanto più se sono momenti unici e particolari, io non avevo neanche capito che cosa volesse dire assassinato. Io non avevo colto il significato di quella parola nemmeno quando l’avevo sentita per radio in un autogrill, mentre la mamma ci accompagnava di corsa a Milano per un’emergenza improvvisa, non meglio definita, che appunto ci imponeva di tornare dalle vacanze che stavamo trascorrendo al mare. Le ragioni di quell’omicidio le ho capite piano piano, e in ultimo con questo libro che nasce dalla volontà di trasferire ai miei figli, a mia volta, l’esempio altissimo offerto da mio papà. Quindi è un libro dove mischio la parte privata che, appunto, non è tantissima, ha una ricostruzione che non è niente di nuovo. Non ci sono novità non ci sono nuovi documenti non ci sono nuove rivelazioni perché il brutto di questa storia è che è davanti ai nostri occhi, chiarissima in quasi tutti i suoi dettagli dal 1986. Da quell’anno si sa chi, come e perché ha voluto la morte di mio padre. E si sa perché è arrivata una sentenza che è divenuta definitiva di lì a breve e quel chi come e perché racconta non solo quale sia stata la battaglia che mio papà senza clamori che ha condotto per gli ultimi 4 anni e mezzo della sua vita, ma anche quale sia stato il contesto nel quale si è sviluppato. Un contesto fatto, purtroppo, di un perverso rapporto tra il mondo criminale e il mondo politico finanziario italiano degli anni ’70.
Blog: al funerale di suo padre non partecipò nessuna autorità dello Stato
Ambrosoli: sì, papà era – usiamo un eufemismo – un po’ solo, e il suo funerale è la celebrazione di quella solitudine. Vi parteciparono necessariamente in forma privata i magistrati che con lui seguivano le indagini per la bancarotta della Banca Privata italiana, vi partecipò l’allora governatore onorario della Banca d’Italia Guido Baffi, che assieme a Sarcinelli che era il direttore generale della Banca d’Italia di allora aveva da poco subito una delle aggressioni più vergognose che la storia democratica del nostro Paese ricordi. Fu la celebrazione di una solitudine. A distanza di 30 anni si è tutto invertito e oggi – devo dire dal ’92 a questa parte – il funerale di mio papà viene invece celebrato nelle scuole nelle università nei circoli nelle parrocchie nei contesti dove si ha voglia di ricordare quell’esempio e di utilizzare quella storia per capire come possiamo costruire, così come mio papà ha cercato di fare, il Paese nel quale vogliamo vivere.
Blog: in questi ultimi 18 anni – ha fatto l’esempio del ’92, qualche apparato di Stato si è fatto sentire? qualche politico, ministro…
Ambrosoli: ammesso che sia l’apparato dello Stato a dover manifestare la propria solidarietà, cioè i rappresentanti e non i rappresentati che sono 2 livelli da tenere distinti ma fino a un certo punto, mi piace ricordare che in occasione del ventesimo anniversario della morte di mio padre – 10 anni fa – l’allora ministro della giustizia in una cerimonia che si è tenuta sul lago Maggiore nel paesino dove papà aveva trascorso buona parte della propria infanzia, alla presenza dell’allora presidente della Camera Giovanni Maria Flick da un lato e Luciano Violante dall’altro, il ministro Flick ritenne di dover chiedere pubblicamente scusa da parte dello Stato allo Stato. E mi è sembrata una bellissima sintesi perché vede, da figlio, che mi sia stato chiesto scusa perché per un tot di tempo ci si era dimenticati dell’esempio di papà o perlomeno non si sono tratte le conclusioni che si potevano trarre da quella storia, certamente mi dà orgoglio e quant’altro. Però se la guardo da cittadino capisco in realtà come sia lo Stato, inteso come insieme della comunità a dover ricevere delle scuse. Perché è allo Stato che quella storia va presentata, è a tutti noi che quella storia va presentata e quella come altre non rappresentarle come esempio vuol dire fare un torto esattamente allo Stato.
Blog: suo padre è morto perché comunque era una persona di sani principi, non si era lasciato corrompere.
Ambrosoli: non si era lasciato corrompere, non si era lasciato minacciare, o perlomeno non si era comportato diversamente da come riteneva sulla base delle minacce, ma è l’esempio di un uomo libero.
Blog: però oggi la corruzione è entrata nel linguaggio comune, e voglio dire più nessuno si meraviglia quando si sente parlare di corruzione.
Ambrosoli: ma forse neanche allora sa? se noi prendiamo i giornali di 30 anni fa, cioè nel periodo in cui quella storia si è sviluppata, ci rendiamo conto che un pochino, sotto gli occhi di tutti, i sintomi di quel sistema corrotto che è poi divenuto palese negli anni di Tangentopoli, c’erano già tutti. Facendo le indagini sul come e perché la Banca Privata italiana fosse giunta a fallimento papà aveva scoperto – e la cosa era divenuta pubblica – dei finanziamenti dai fondi delle casse di Sindona la Democrazia Cristiana: 2 miliardi in occasione del referendum sul divorzio se non ricordo male, portati direttamente nella segreteria del presidente attraverso un giro neanche troppo mascherato di assegni circolari trasformati in libretti al portatore, girati e a loro volta trasformati in contanti. Attenzione! non soldi di Michele Sindona o delle banche di Michele Sindona, ma soldi di persone che avevano depositato soldi dei propri averi in quelle banche. Quel sistema – questo è uno degli esempi fra i tanti che è possibile fare di quelli che sono emersi in quegli anni – era venuto alla luce. La collettività aveva fatto tesoro di quelle scoperte.
Blog: e secondo lei, dopo 30 anni, o comunque in Italia, vale la pena morire da eroi?
Ambrosoli: papà non ha fatto niente di quello che ha fatto né per morire, né per essere ricordato come un eroe. Papà ha ritenuto di doversi comportare secondo quelli che erano i propri valori, i propri principi con l’indipendenza che aveva caratterizzato tutti i momenti della sua vita confermata nel momento della massima responsabilità. Vede, papà non era un uomo dello Stato, era un avvocato, un libero professionista, aveva uno studio come questo. Delle persone con le quali collaborava apparentemente nell’interesse del proprio cliente del momento. In realtà un avvocato con la A maiuscola non lavora per il cliente del momento, lavora per l’ordinamento per il rispetto delle regole, per l’affermazione dei diritti. E questo papà lo ha fatto anche nel momento in cui il tra virgolette cliente, è diventato lo Stato che gli ha affidato un incarico: quello di Commissario liquidatore. E lo ha svolto esattamente nello stesso modo, mettendo al servizio della causa che stava seguendo la propria intelligenza, la propria capacità, la propria abnegazione, i propri valori. La propria gerarchia di valori. E su tutto operando con la consapevolezza della propria responsabilità. E la consapevolezza della propria responsabilità va necessariamente insieme al significato alla consapevolezza del significato della propria libertà. E difendere la propria libertà diventa il modo per rappresentare gli interessi della collettività. Questo in sintesi ha fatto papà. E non l’ha fatto pensando di fare una guerra santa o per voler diventare un eroe. Tutt’altro! L’ha fatto silenziosamente, operando giorno per giorno, non piegandosi – è vero – né alla corruzione né alle minacce ma neanche agli alibi che nel tempo gli sono stati offerti, la solitudine della quale parlavamo prima. O la consapevolezza del fatto che fosse un sistema apparentemente indistruttibile, così diffuso al quale diventava certamente più facile omologarsi che rimanere coerenti. L’esempio di papà è questo. L’esempio di come si possa essere cittadini, di come si possa essere uomini, di come si possa essere genitori che hanno voglia di guardare i propri figli negli occhi, di come si possa essere marito unito da un vincolo che è fondato esattamente sugli stessi valori, di come le regole o l’amore per le regole o la legalità – chiamiamolo come vogliamo – non sia uno slogan da spendere ma sia un modo di vivere.