di Sabrina Pignedoli – La prima buona notizia nell’odissea pluriennale di Julian Assange si è avuta il 20 maggio, al termine dell’udienza dell’Alta Corte di Londra, con una sentenza che permetterà al fondatore di WikiLeaks di fare appello contro la decisione di estradarlo negli Stati Uniti. Ho invitato in Italia John Shipton, padre di Assange, che in questi giorni sarà a Imola per il conferimento della cittadinanza onoraria e a Verona e Piacenza per due incontri pubblici che ho organizzato. Credo sia importante tenere alta l’attenzione sul caso Assange in questo momento.
Infatti, di per sé l’ultima sentenza di Londra è l’ennesimo capitolo di una vicenda che si trascina da anni con tanti punti oscuri, omissioni, documenti scomparsi, spionaggio illegale. C’è però un’importante novità: i giudici di Londra hanno ravvisato il pericolo di un processo ingiusto qualora Assange venisse estradato negli Stati Uniti. Un pericolo evidente a tutti, visto che per l’attivista e giornalista australiano verrebbe applicato l’Espionage Act, una legge speciale varata durante la Prima guerra mondiale mai utilizzata per un giornalista. Nella loro risposta alla Corte britannica, i giudici statunitensi hanno detto che non potevano garantire l’applicazione del primo emendamento della Costituzione Usa ad Assange. Uno dei capisaldi della legislazione di Washington verrebbe a saltare in un caso, che non ha nulla di giudiziario e molto di politico. La legge statunitense vieta espressamente di censurare la stampa. Vale la pena di leggere questa norma, per capire come il caso Assange abbia fatto allontanare l’amministrazione di Washington dalle sue stesse leggi e abbia a che fare piuttosto con la geopolitica e gli interessi degli Stati Uniti: «Il Congresso non potrà porre in essere leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione o per proibirne il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa o il diritto dei cittadini di riunirsi in forma pacifica e d’inoltrare petizioni al governo per la riparazione di ingiustizie». Da più parti si fa notare giustamente che negli ultimi vent’anni la censura nei confronti dei giornalisti è cresciuta a dismisura anche nei Paesi cosiddetti democratici. Basti pensare ai Pentagon Papers, pubblicati nel 1971, in cui si evidenziava come il governo degli Stati uniti avevano bombardato massicciamente la popolazione civile in Laos, Cambogia e Vietnam del Nord senza informare i propri cittadini di questa decisione. Grazie a Daniel Ellsberg, che girò alla stampa il voluminoso dossier di 7 mila pagine, abbiamo conosciuto la verità sulla guerra in Vietnam. Cosa successe all’epoca? Dopo il primo articolo sui Pentagon Papers pubblicato dal New York Times il 13 giugno 1971, il presidente Nixon cercò di bloccare ulteriori pubblicazioni relative al dossier e mandò un’ingiunzione. Il 18 giugno il Washington Post pubblicò altri documenti. I due giornali fecero ricorso contro la decisione di Nixon alla Corte suprema, che il 30 giugno annullò l’ingiunzione per violazione del primo emendamento, dichiarandosi a favore (6 a 3) della libertà di stampa. In meno di dodici giorni la libertà di stampa fu tutelata. Per Assange invece sono trascorsi 12 anni di detenzione, tra gli anni in clausura nell’ambasciata ecuadoriana e la prigionia a Belmarsh.
Ora la decisione dei giudici britannici può riaprire questa vicenda scandalosa. Per l’Alta Corte il processo ad Assange negli Usa (dove rischia fino a 175 anni di prigione) non offre le dovute garanzie, come avevamo capito tutti fin dall’inizio. Questa decisione potrebbe e dovrebbe portare a una decisione della giustizia britannica: la liberazione di Assange. Se i legali del fondatore di WikiLeaks sono autorizzati a fare ricorso contro l’estradizione, il motivo di fondo di questa possibilità è la mancanza di affidabilità della giustizia Usa su questo caso. Non è stato un risultato scontato. Anni di depistaggi e omissioni ci hanno fatto capire come le rivelazioni di WikiLeaks abbiano dato fastidio e pur senza una base legale Assange è stato fermato e punito.
La libertà di stampa e il diritto dei cittadini a essere informati non può valere solo fino a un certo livello. Rivelare crimini di guerra e altre malefatte è un dovere che permette di distinguere le democrazie dagli stati totalitari. Purtroppo la funzione di “cane da guardia della democrazia” che competerebbe al giornalismo è a rischio e la risoluzione del caso Assange, nonostante gli anni di prigionia dell’attivista australiano, può fare la differenza. Non c’è alcun motivo di tenerlo ancora in carcere.
Appuntamenti con John Shipton, padre di Julian Assange, in Italia:
Verona, 24 maggio, ore 10: incontro Sala conferenze Borgo Nuovo, via Trapani, 8-10.
Imola, 24 maggio, ore 16.30: conferimento cittadinanza onoraria a Julian Assange da parte della Città di Imola, via Mazzini, 4.
Piacenza, 24 maggio, ore 20.45: incontro alla Cooperativa popolare Infrangibile 1946, sindacato S.I. Cobas, via Alessandria 16.
L’AUTORE
Sabrina Pignedoli – Europarlamentare e giornalista. Si dedica principalmente allo studio della malavita organizzata e alla denuncia dell’omertà che la favorisce.