Il Fondo Monetario Internazionale si rimangia le parole sulla liberalizzazione del mercato del lavoro. A leggere l’ultimo World Economic Outlook dell’istituzione con sede a Washington “il livello di regolamentazione del mercato del lavoro non ha evidenziato correlazioni statisticamente significative con la produttività complessiva“. Non si può sostenere ad un livello scientifico che per aumentare la competitività dell’economia sia necessario tagliare i diritti dei lavoratori, rendendo più facili i licenziamenti alle imprese e più vantaggiose le assunzioni. Il Fmi riconosce che le determinanti della crescita economica e della produttività stanno altrove: spesa per investimenti, ricerca e sviluppo, competenze dei lavoratori, concorrenza nel mercato dei beni.
Più aumenta la flessibilità, più i salari medi tenderanno ad un livellamento verso il basso, perché aumenterà il potere contrattuale dell’imprenditore ai danni dell’aspirante lavoratore. Liberalizzare selvaggiamente il mercato del lavoro, proseguendo sulla via indicata dal Jobs Act, non può che favorire un calo degli incentivi a studiare, formarsi e specializzarsi, perché il basso livello dei salari renderà poco conveniente un percorso di studi completo. L’Italia si avvia così a diventare un bacino di manodopera non qualificata e a basso costo, dove è possibile fare shopping di imprese a prezzo di saldo ed esportare poi i lauti profitti fuori dai nostri confini. Il mondo del lavoro deve diventare il centro di una politica economica che garantisca una domanda interna solida, alti salari reali, profitti costanti e investimenti privati elevati, come da Costituzione.
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