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Perdere un dito o perdere un braccio?

- IO GRIDO
Agosto 5, 2021

di Beppe Grillo –  Uno studio pubblicato l’anno scorso ha rivelato che le temperature di Jacobabad nel sud del Pakistan e di Ras Al-Khaimah negli Emirati Arabi hanno raggiunto una temperatura ritenuta incompatibile con la sopravvivenza umana.

Chiedersi quali sono i costi della transizione, potrebbe essere la domanda sbagliata. Sarebbe meglio chiedere: preferiamo perdere un dito o un braccio?

Sono passati pochi giorni dagli eventi disastrosi accaduti in Germania, Cina e altri Paesi europei, e questi dovrebbero di per se essere stati più che sufficienti a far capire a che tipo di costi stiamo andando incontro se non realizziamo una vera transizione.

Dobbiamo però fare qualcosa di più che trovare momentanee soluzioni. Dobbiamo ripensare i vari cicli produttivi/energetici, in maniera da contenere le emissioni di CO2.

Ma dobbiamo farlo tutti insieme, farlo come singole nazioni non porterà a molto.

Nel 2006 il famoso economista Nicholas Stern, su incarico del governo inglese, scrisse “Un piano per salvare il Pianeta”, in cui cercava di spiegare come un’eventuale inazione si sarebbe tradotta in catastrofi ambientali, e quindi economiche, di portata biblica.

Negli anni passati, poi, si sono susseguiti decine di studi, ricerche, analisi che hanno confermato queste previsioni, con stime di danni impressionanti (per brevità, cito solo questa breve dichiarazione ufficiale dell’UE).

Oltre alle stime, ora iniziano ad arrivare anche le analisi “a posteriori”, come quella recentissima del programma europeo ESPON che calcola in 77 miliardi i danni subiti dalla sola UE dal 1995 al 2017. Ma considerando che gli effetti sul clima hanno un andamento esponenziale e mancando nel computo gli ultimi anni, il conto in realtà è molto più alto.

Ma so che siete dei puntigliosi. Prevenendo in anticipo un legittimo dubbio che molti potrebbero porsi, esiste una recentissima analisi che proviene dalla più sovversiva, anarchica e antigovernativa associazione esistente: la Banca d’Italia.

In un suo recente rapporto, ci informa come, a causa degli sconvolgimenti climatici in atto, siano a rischio tutta una serie di attività imprenditoriali.

La stessa Banca d’Italia come altre banche centrali (che proprio per questo hanno creato, alla fine del 2017, il “Network for Greening the Financial System”, una rete globale di banche centrali che lavoreranno per ridurre gli sconvolgimenti ambientali) potrebbero essere ostacolate nel perseguimento delle loro attività istituzionali in quanto “eventi climatici avversi, più intensi e frequenti, potrebbero avere un effetto sul ciclo economico e, di conseguenza, sulla conduzione della politica monetaria”. Più in dettaglio, nel rapporto si conferma che “il progressivo aumento delle temperature si traduce in una riduzione della produttività del lavoro” e che “’l’aumento dell’evapotraspirazione potrebbe nel lungo periodo rendere scarsa la disponibilità di acqua, in particolare nel Mezzogiorno”.

Secondo il rapporto preso in esame “la resa per le colture di mais in Italia potrebbe diminuire fino al 25% e la coltivazione frumenticola registrerebbe forti cali in particolare al Sud (-50%; Hristov et al. 2020)”. Similmente “sono attesi effetti negativi per la pesca e per l’allevamento, dove l’innalzamento delle temperature può condizionare la vita degli animali in termini di crescita, possibilità riproduttive e maggiore possibilità di ammalarsi”.

Ma non è la sola risorsa del nostro Paese ad essere a rischio.

Il turismo in Italia rappresenta il 13% del PIL interno, ma nelle spiagge “fenomeni erosivi potrebbero causare una perdita di spazi e infrastrutture; l’aumento delle temperature e la maggiore frequenza di ondate di calore potrebbero inoltre rendere meno appetibile questa tipologia di turismo. Anche il turismo montano sarebbe colpito dalle maggiori temperature: i principali modelli climatici prevedono per i prossimi decenni una diminuzione dei giorni nevosi comportando una minore presenza di neve naturale”.

Da queste semplici nozioni, sembra chiaro che la strategia delle più note potenze del pianeta, stavolta non funzionerà. I costi del non fare sono enormemente più alti di qualsiasi transizione.

Inoltre dimentichiamo che in parecchi casi la conversione comporta la creazione di enormi quantità di lavoro. Basta guardare cosa sta realizzando il superbonus 110% in termini di cantieri e nuove ditte di settore (e il superbonus serve essenzialmente per dimezzare le quantità di gas per le nostre caldaie) e cosa stanno iniziando a fare le Comunità Energetiche Rinnovabili (possibili solo da un anno a questa parte).

Teniamo presente che, per rispettare gli impegni internazionali dell’Accordo di Parigi al fine di contrastare i pericoli del cambiamento climatico e il riscaldamento del pianeta, da pochi giorni si è aperto il confronto per realizzare concretamente il Green New Deal europeo con il lancio del FIT for 55.

Sempre la rivoluzionaria bankitalia ci ricorda che le attività con “punteggi di sostenibilità più elevati siano, nel lungo periodo, più resilienti agli shock e, di conseguenza, possano garantire migliori combinazioni di rischio e rendimento, con benefici per gli investitori e per la società nel suo complesso“.

L’Europa inquina per il 10% circa del totale complessivo, e quindi è chiaro che misure che abbiano effetti solo interni non sarebbero minimamente sufficienti a risolvere la situazione. Ed è per questo che da moltissimo tempo si parla di istituire una sorta di “dazio ambientale” alle frontiere europee, per conseguire il duplice risultato di “allineare” i costi di produzione tra aziende europee ed extraeuropee, e far pagare chi inquina, anche se questo si trova fuori dell’UE.

Ora finalmente l’UE ha proposto una prima bozza su tale “dazio”, chiamandolo “CBAM – Carbon border adiustment mechanism”, un altro impronunciabile nome che però descrive un semplice concetto: più inquini più paghi.

Tutto bene dunque? Non ancora, perché questa prima bozza ne prevede l’inizio tra parecchi anni, e limitatamente a determinati settori, non a tutti. Ma almeno “il dado è tratto” ed ora la politica italiana dovrà lavorare verso la sua definizione e implementazione (europea) il più velocemente possibile.

Non dobbiamo salvare il pianeta. Il pianeta sopravviverà comunque, anche con temperature a 70 gradi, anche con frequenti uragani e con interi continenti desertificati. Dobbiamo salvare noi stessi. Noi non potremo sopravvivere in una Terra del genere.

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